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In morte di un giudice

Di Elena Mazzocchi il . Sicilia

Era il 25 settembre del 1988 quando Antonino Saetta, che stava tornando in macchina a Palermo da Canicattì accompagnato dal figlio Stefano, fu assassinato da un gruppo di fuoco per ordine di Totò Riina e Francesco Madonia (come è stato riconosciuto con una sentenza passata in giudicato). Il commando era guidato da Pietro Ribisi, esponente di una famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro.

Poco noto alle cronache, il giudice, presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, si era invece occupato di due processi importanti, quello relativo all’assassinio del giudice Rocco Chinnici e quello per la morte del capitano dei carabinieri Giuseppe Basile. In entrambi i casi Saetta aveva inflitto agli imputati pene molto severe: ai potenti (ma allora ancora incensurati) Greco, implicati nella strage in cui perse la vita Chinnici, aggravò le condanne rispetto al giudizio di primo grado, andando contro la prassi che vedeva semmai diminuire le pene in appello. E addirittura gli assassini di Basile, Giuseppe Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, assolti in primo grado, li condannò all’ergastolo.

Uno schiaffo in piena faccia alla mafia, che non poteva perdonare l’indipendenza del giudice.
Ma a decidere la morte di Saetta contribuirono altri due elementi. La sua eliminazione fu voluta dalla mafia di Palermo (Riina e Madonia), ma l’esecuzione materiale venne affidata a quella agrigentina, desiderosa all’epoca di rinsaldare i rapporti con i palermitani e avere maggiore visibilità (di qui il luogo dell’omicidio, la strada Agrigento-Caltanissetta). Con questo patto entrambe ottenevano il risultato di comunicare compattezza e capacità di controllo totale sul territorio: nessuno, neanche un magistrato, poteva fare alcunché contro i loro interessi.

Inoltre correva voce che Saetta avrebbe potuto essere il presidente d’appello al maxiprocesso: un pericolo troppo grande per i capicosca, che speravano, come in effetti avvenne, che le condanne di primo grado fossero grandemente ridimensionate.
Uccidere per la prima volta (e per la prima volta insieme a un figlio) un esponente della magistratura giudicante e non inquirente segnava poi per Cosa Nostra un netto salto di qualità, essendo infatti la magistratura giudicante «un organo che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l’accusa e la difesa»  (Roberto Saetta).

Il messaggio che la mafia voleva mandare fu subito chiaro a tutti in Sicilia: la morte di Saetta  impressionò fortemente l’opinione pubblica e la magistratura, creando un clima di paura del quale Cosa Nostra approfittò per anni.

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