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Platì e Griffith, la ‘ndrina dei due mondi

Di Francesca Chirico il . Calabria, Internazionale

A Donald Bruce Mackay il nesso non era sfuggito. Tra i nuovi fiumi di mariujana che innaffiavano le strade di Griffith  e certi calabresi dalla cattiva fama che ne occupavano le case il rapporto di causa ed effetto era limpido come il cielo sui tetti del Nuovo Galles del Sud. I soli a non accorgersene erano i poliziotti della città, evidentemente persuasi a scambiare per lattuga gigante le vistose piantagioni di cannabis allestite nelle campagne circostanti. Per farsi ascoltare il deputato liberale arrivò quindi fino a Sidney e davanti alla polizia federale fece, con qualche difficoltà di pronuncia, i nomi di Roberto Trimboli, Antonio Sergi e Giuseppe Scarfò, tutti originari di Platì, tutti dal ragguardevole pedigree criminale. Il pomeriggio del 15 luglio 1977 di lui non rimase che qualche chiazza di sangue vicino alla macchina abbandonata nel parcheggio del Griffith hotel. Il corpo di Donald Bruce Mackay, 44 anni, non fu mai ritrovato e l’Australia scoprì la “N’dranghita” (sic). Trent’anni prima che con la strage di Duisburg lo facesse la Germania.

Peccato che la ‘ndrangheta l’Australia l’avesse scoperta già da tempo. Tutta colpa delle alluvioni. Nell’ottobre del 1951 Platì piange 19 morti e buona parte delle case distrutte; Gioiosa Jonica, Roccella, Siderno, Palizzi, San Luca si leccano le ferite e contano i danni. Tutto il versante orientale dell’Aspromonte è sporcato da fango e detriti. Stanchi di prendere schiaffi anche dalla natura, molti reggini della fascia jonica decidono in quei drammatici giorni di ricominciare altrove, scommettendo quel poco che è rimasto su un biglietto per l’America, la Germania, l’Australia. Con contadini, barbieri, calzolai e operai, fanno le valigie anche molti affiliati delle ‘ndrine, portandosi nel cuore Osso, Mastrosso e Carcagnosso e nella mente un know how capace di adattarsi a luoghi e situazioni.  Gli avamposti che nel paese dei canguri avevano fatto sventolare la bandierina della ‘ndrangheta già dagli anni Venti – nel Queensland la famigerata “Mano Nera” del padrino Vincenzo D’Agostino – si rinvigoriscono con truppe fresche, si rinnovano nel core business. Disfatte le valigie, comincia la conquista del nuovo Mondo.

Terra ce n’è tanta. Soldi, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, pure. Li spediscono i parenti (e affiliati) dalla Calabria dove i sequestri di persona hanno fatto sgorgare dalle prigioni dell’Aspromonte un’impressionante liquidità che ora tocca investire in affari sicuri. I cognomi degli acquirenti, in calce agli atti con cui i calabresi diventano padroni di sterminati terreni incolti, sono gli stessi delle guide telefoniche di Platì, Locri e Siderno: Trimboli, Sergi, Barbaro, Romeo, Nirta, Pelle. Soprattutto, sono gli stessi che già da tempo ritornano ossessivamente nelle informative di carabinieri e polizia.

Nel 1989, quindi, i poliziotti australiani non si sorprendono di scoprire 188 piantagioni di canapa indiana su terreni acquistati dai calabresi nel Nuovo Galles del Sud, lo Stato di Donald Mackay. Era stato però necessario anche l’omicidio del vicecapo dell’Australian federal police, Colin Winchester – assassinato il 10 gennaio di quell’anno a Canberra con due colpi di pistola alla testa a pochi metri da casa – perché l’Australia proclamasse “la fine dell’età dell’innocenza”, guardandosi finalmente allo specchio per scoprire che da Perth a Melbourne, da Canberra a Sydney, il virus calabrese dallo strano nome era attecchito ovunque  e ovunque aveva trovato linfa vitale.  Anche a costo di importarla tramite container, nascondendola nei blocchi di marmo – come si è stato fatto con un grosso carico di cocaina nel 2004 – o nei barattoli per pomodori.  

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