E’ il mercato, bellezza…
«Evvabbé,
continueremo a fare il nostro lavoro. Pure se passa la legge sulle
intercettazioni». Minimizza Rosaria Capacchione. Ha 48 anni,
giornalista professionista dal 1983, cronista giudiziaria alla
redazione casertana de «Il Mattino». Ha appena ricevuto il premio
Testimone di Pace 2008 per la sezione Informazione. Sul palco del
Comunale di Ovada, lo scorso 11 settembre, gli argomenti sono da far
tremare le vene e i polsi: Scampia e legalità, ruolo e
responsabilità dell’informazione, Costituzione, ma lei non arretra
di un passo: «evvabbè» insiste, e guarda Gian Carlo Caselli dritto
dritto negli occhi. Il procuratore. Non gli altri ospiti sul palco
(Padre Valletti di Scampia, che è Testimone di Pace 2008, Maurizio
Bracci sceneggiatore di Gomorra e Giovanni De Luna storico ed
editorialista de «La Stampa»). Non il moderatore, l’ottimo Marino
Sinibaldi. Non la sala gremita. Fissa Caselli e non cerca l’applauso:
«evvabbè procuratore. Che cambia? Facciamo senza». Poi sorride.
Tra
il pubblico che assiepa il Teatro immaginiamo gli uomini della
scorta: quelli di lui – il magistrato che arrivò a Palermo poco
dopo la strage di via d’Amelio – e quelli della giornalista
casertana, nel mirino dei Casalesi per gli articoli sulla camorra,
che taglia corto e si affretta a concludere: « Cche è! siamo
giornalisti, vogliamo notizie, soprattutto quelle segrete. E’
questo il lavoro nostro». A quel punto applaude persino il
supermagistrato, l’aplomb torinese che cede al gesticolare
napoletano, affatato direbbero dalle parti di Rosaria: «mi
alzerei e la bacerei, ma non so se i suoi colleghi…».
Appunto. I colleghi.
Informare
in terra di camorra
Conviene
partire di qui per questa breve chiacchierata con Rosaria Capacchione
su legalità e informazione. Dagli articoli che chiudendo il Festival
Letteratura di Mantova Roberto Saviano ha mostrato ad un pubblico
esterrefatto: sui giornali che si comprano nel casertano escono
servizi sul «boss sciupafemmine», le aperture sono dedicate agli
hobby di questo o quel latitante, su sei colonne si sparano nomignoli
che tutti dovrebbero capire, e che capisci solo se alla camorra stai
vicino almeno un po’, almeno per sentito dire. Roba che dimostra
come dalle parti dove lavora la cronista Capacchione si respiri una
certa contiguità, un humus
comune tra il sistema di potere rappresentato dai clan e le testate a
diffusione popolare. «Si finisce sempre col parlare dei giornalisti
e non degli editori, che sono attori primari – spiega lei – in
Campania la stampa locale ha un taglio scandalistico, anche quando
non si parla di camorra; poi scarsa documentazione e talvolta qualche
cenno ricattatorio» Racconta che qualche anno fa uno degli editori
di questi giornali fu arrestato per estorsione a mezzo stampa, e poi
chiarisce coi numeri: «si calcola ci siano tra i millecinquecento e
i duemila camorristi – li conta sulla base degli arresti –
considerando tre o quattro persone a famiglia l’area di contiguità
familiare intorno alla camorra si aggira tra le dieci e le ventimila
persone». Che rappresenterebbero appunto il bacino privilegiato di
questi giornali: «sono il “target”. I giornali, d’altronde,
rispecchiano i territori di appartenenza».
Dalle
sue parti, dice, se ti fai una passeggiata in tribunale, sui banchi
dove siede chi assiste alle udienze mica vedi «Repubblica», il
«Corriere» o «La Stampa». Mica leggi le analisi di Giovanni De
Luna sulla “separatezza”, l’alterità di Scampia. «Questi
piccoli giornali locali hanno la loro ragion d’essere nel far da
contraltare a noi che avevamo il monopolio: ci sono notizie di cui un
giornale più grande non può o non vuole occuparsi, cronaca
spicciola, ma importante per le piccole comunità». Nera e
giudiziaria perlopiù. Ma se un giorno non accade nulla devi comunque
“aprire”, e se vuoi vendere devi aprire con qualcosa che
interessi il tuo target. «In qualche caso ho registrato anche un
disagio forte dei colleghi che lavorano per queste testate: per
l’urgenza di chiudere necessariamente e in fretta e con questa
roba. Magari verbalacci, che più sono scadenti e più vengono
pubblicati».E’ il mercato, bellezza.
Il
ruolo dell’informazione
E
i giornali lo specchio di chi va in edicola. L’immagine del
territorio. Ma lo influenzano anche, il territorio? Quanto il
racconto della realtà può incidere sulla realtà stessa? Qual è il
ruolo del giornalista, la sua responsabilità?
«Assolutamente
non un ruolo didattico. Noi dobbiamo informare. Le cose possono
piacerci o meno, ma non dobbiamo raccontarle come sono, non come
vorremmo che fossero. Dopodiché se il racconto chiaro esplicito
puntuale preciso dettagliato e documentato di un fenomeno o di un
fatto, se questo racconto riesce a incidere sulla fascia di lettori
che poi lo raccontano ad altri, ben venga. E’ inevitabile che
accada».
Intanto
però raccontare e basta. E raccontare tutto. «Sai che succede
quando si sale in cattedra? Che attorno a quel progetto, a
quell’idea, che magari è anche una buona idea ma non è detto che
lo sia, si forma un’aggregazione di persone. E più l’aggregazione
s’allarga e più all’interno si creano dei sottogruppi, e se ne
fai parte inevitabilmente finirai per nascondere, coprire, non
raccontare per intero cose che possono riguardare qualcuno degli
appartenenti. E’ il meccanismo dei giornali di partito».
Ma
davvero i giornalisti sono nelle condizioni di svolgerlo questo ruolo
non didattico e però nei fatti complicato da pressioni che poco
hanno a che fare con la deontologia professionale? «Il primo
problema sono gli editori. Se continuiamo ad avere giornali in cui i
giornalisti vengono considerati risorse e non professionisti, in cui
l’obiettivo dell’azienda è ottimizzare costi e produzione,
vendere un numero maggiore di pagine perché più pagine vuol dire
più pubblicità, se tutto continua in questo modo inevitabilmente il
lavoro sarà fatto peggio. La flessione complessiva della stampa
quotidiana nazionale si spiega anche così: giornali fatti male,
salvo un paio. Pieni di refusi, di sciocchezze. E anche le Agenzie.
Una volta se dicevi l’ha
detto l’Ansa voleva dire qualcosa. Adesso invece…».
Adesso
invece ci sono i comunicati stampa. Che le Procure, e le strutture
analoghe, emettono con puntualità. «A nessuno piace avere un
guardiano – dice Capacchione – I magistrati sono un potere,
garantito dalla Costituzione, e noi siamo il cane da guardia. Il
comunicato stampa limita la mia possibilità di controllo. Non dico
affatto che le porte della Procura debbano essere aperte: ognuno fa
il suo mestiere: loro devono chiudere le porte e io devo sapere le
cose. Ma non si può pretendere di imbrigliare le mie conoscenze in
un comunicato stampa emesso da una
fonte. E’ un sistema che fa comodo: finalmente
a questi rompiscatole di giornalisti gli diciamo noi quello che
vogliamo, ed è una
delle cause della degenerazione del sistema».
Carta
straccia, allora? «Diciamo che non voglio i comunicati stampa della
procura o della polizia. Se vogliono, se ritengono di doverlo e
poterlo fare, devono darmi notizie. Notizie sono quelle che io chiedo
e tu rispondi. Se vuoi e puoi rispondere. Lo sai quante condanne per
diffamazione ci sono state per aver riportato notizie basate sui
comunicati stampa e non puntualmente verificate? Mentre invece se
devi sudare sulle carte vere, se devi riscontrare fonti diverse, puoi
farti un’idea tua, che può coincidere o meno con quella del
pubblico ministero o del giudice che emette la sentenza, ma è un
idea tua». Una
vita sotto scorta
Notizie.
Quelle che io chiedo e tu rispondi. Sembra facile, quando lo dice
lei. Viaggia sotto scorta e rifiuta l’etichetta di giornalista
coraggiosa.
Giornalista
e basta, semmai. «Solo mi sento un po’ più nuda, un po’ più
spaventata, di quanto mi sentissi prima della lettura in aula del
documento che ci riguardava. E’ stato un momento “pubblico” che
ha sancito “ufficialmente” anni e anni di scocciature». Il
riferimento va alla comunicazione che i legali degli imputati nel
processo Spartacuslessero in aula nel marzo 2008, chiamando in causa Saviano
Capacchione e il pubblico ministero Cantone, e chiedendo il
trasferimento del processo per legittima
suspicione: gli
articoli della Capacchione, in particolare, avrebbero favorito
l’accusa condizionando la serenità di giudizio del tribunale . «Il
documento si presta a vari livelli di lettura. Uno percepibile
immediatamente e l’altro più criptico, in base al quale mi
attribuiscono un ruolo da “infame”. Dicono che ho fatto il gioco
della procura, che non ho fatto il mio mestiere, ma un altro. Si
richiamano ad un episodio di cronaca che ho riportato. Informazioni
peraltro contenute in atti pubblici, ma che ho pubblicato solo io.
Non perché sia più brava degli altri, ma per l’atteggiamento che
ho detto prima, perché non ho nessun fine didattico».
Una
vita sotto scorta
Notizie,
insomma. Quelle che io chiedo e tu rispondi. «Le ho controllate.
Erano vere. Le ho pubblicate». Lei
sola. E’ questa solitudine che dopo anni di minacce solo adesso la
fa sentire in pericolo? «E’ questo che crea
il pericolo. Sapevo di correre dei rischi, anche prima che mi
assegnassero la scorta. So bene di aver scritto cose che possono dare
fastidio. In genere succede quando tocchi i soldi; se non tocchi i
soldi non frega niente a nessuno; se tocchi i soldi si innervosiscono
piuttosto. E allora?».
Già,
e allora? Che dobbiamo fa’?
Notizie.
Racconto chiaro esplicito puntuale preciso dettagliato e documentato
di fatti. «Non conosco un altro modo – e chiude – di fare questo
lavoro».
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