Cosa nostra e il fallito attentato al commissario Rino Germanà
L’odierno questore di Forlì, Rino Germanà, è uno dei pochi che può raccontare le fasi di un omicidio. I «rumori», le mosse di chi spara e di chi scappa, i sibili delle pallottole. Di quell’agguato (14 settembre 1992) lui poi doveva essere la «vittima». È riuscito a sfuggire ai killer mafiosi, ad un commando del quale facevano parte i più pericolosi boss di Cosa Nostra siciliana, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella, che però come raccontò l’ex reggente della cosca di Mazara, Enzo Sinacori, era oggetto spesso delle lamentele di un altro mafioso (ora pentito) Giovanni Brusca circa l’incapacità a «usare ami moderne», e questa sua deficienza fece salva la vita al commissario Rino Germanà. Bagarella usò male il kalashnikov, credeva di sparare a raffica, ma riuscì a far partire qualche singolo colpo.
Con il commando c’era anche il palermitano Giuseppe Graviano, a far da «palo» erano stati i mazaresi Diego Burzotta e Vincenzo Sinacori, mentre a distanza attendeva i sicari in fuga il castelvetranese Francesco Geraci.
Nelle parole di Germanà c’è la ricostruzione di quel momento, lui guidava la Panda del commissariato, percorreva il lungomare Tonnarella, dietro di lui una Fiat Tipo a seguirlo. «Io sento il rumore…. il motore in accelerazione, non so, secondo me doveva essere in seconda, allora accelerava forte e quindi la macchina aveva necessità di mettere la terza e lui non la dava la terza, altrimenti avrebbe acquistato troppa velocità, per cui lasciava la seconda, cioè accelerava e lasciava e allora rallentò l’andatura, poi suonò pure il clacson una o due volte come se mi volesse farmi fermare e vidi che il passeggero del sedile anteriore si sporse dal finestrino dell’auto imbracciando un fucile e, a circa due metri di distanza da lui, sparò un primo colpo».
Ferito di striscio, fermò di colpo l’auto, scese impugnando la pistola, scappò verso la spiaggia, in mezzo ai bagnanti, mentre si continuava a sparare, si tuffò in acqua per non essere visto. «Loro restarono fermi lì sulla strada col motore sempre in forte accelerazione (sgasando) come se non sapessero cosa fare e così rimasero per un minuto o un minuto e mezzo allontanandosi poi in direzione di Marsala. Non percorsero, però, neanche 100-150 metri che fecero inversione di marcia e, tornati indietro, iniziano a sparare dalla strada». Poi si allontanarono ma fecero ancora retromarcia per riprendere a sparare contro al commissario che per sfuggire si era anche tuffato in acqua: «I killer hanno poi spostato l’autovettura di qualche metro in avanti, stavolta a sparare fu chi si trovava seduto nel sedile posteriore sinistro, il quale prese a sparare dall’interno dell’autovettura con una mitraglietta … Ho visto all’altezza di quel finestrino una sagoma nera. Io ripresi ad allontanarmi correndo anche nell’acqua … A un certo punto mi sono anche abbassato. Dopo alcuni secondi smisero di sparare e dopo un po’ se ne andarono via a forte velocità».
Attimi dopo l’aiuto dei bagnanti, da parte di chi ha casa lì, l’ultimo suo istante in quella strada fu una preghiera rivolta a padre Pio. Poi la partenza da Mazara, dalla Sicilia che da quel momento per lui diventò non più praticabile.
La storia di quell’agguato fa parte delle vicende mai chiarite. Mazara all’epoca era la capitale della mafia siciliana, «Totò Riina da lì comandava il mondo» raccontò Sinacori una volta diventato pentito. Crocevia importante la città mazarese lo è sempre stata (e forse lo è ancora), Germanà da capo della Mobile spesso era entrato nelle stanze più segrete, e tornado a Mazara da commissario era quello il lavoro che voleva riprendere a fare. I mafiosi volevano ucciderlo per impedirlo di farlo, lui restò vivo, ma lo stesso di quelle indagini non si è potuto più occupare. Lo hanno fatto altri, gli investigatori del pool antimafia della squadra Mobile diretta dal vice questore Linares, e i boss mazaresi qualche anno dopo sono caduti nella rete della Polizia. Di quel commando manca solo uno all’appello, Matteo Messina Denaro. Per uccidere Germanà si era messo agli ordini di Riina che in quel 1992 andava dicendo «a questo lo dobbiamo uccidere».
L’unico movente accennato nella sentenza di condanna dei mafiosi – killer è quello che «in quel 1992 ogni “famiglia” di Cosa Nostra doveva provvedere ad eliminare i problemi, “la pulitura dei pezzi”», uno di questi era Germanà.
Il commissario di Mazara non era l’unico finito nel mirino, c’era anche quello di Castelvetrano, il vice questore Franco Misiti, loro – all’epoca – «erano le rogne» da togliere di mezzo, così Riina ne parlava, ha ricordato Sinacori, mentre trascorreva le vacanze a Mazara. Fallito l’attentato a Germanà, per l’altro commissario i mafiosi non fecero più nulla, in poche ore Trapani quel 14 settembre 1992 si trovò «assediata» dalle forze dell’ordine.
I fascicoli di Rino Germanà per fortuna non sono rimasti dimenticati. C’è stato chi li ha presi e riletti daccapo, e li ha aggiornati. Indagini che hanno condotto i poliziotti, colleghi vecchi e nuovi di Germanà, a far cadere nella rete i mafiosi ed i loro complici. Ma è poi successo che invece di premere l’acceleratore delle indagini, qualcuno al solito ha cercato di far tirare il freno, e agli investigatori che spesso si sono trovati a chiedere uomini e mezzi per combattere la mafia, lo Stato non sempre ha risposto. E la guerra continua. I «complici» dei boss sono cresciuti e hanno fatto carriera ed è contro di loro che oggi le indagini puntano, e dinanzi ai volti nuovi c’è chi mette in dubbio l’esistenza di questa nuova mafia. Come allora accadeva quando a indagare era Germanà.
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