Ventisei anni dopo, una “nuova” Palermo ricorda Carlo Alberto Dalla Chiesa
E’ già sera, sono circa le 21, quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro viaggiano a bordo della loro auto, seguiti da un’Alfetta guidata dall’agente Domenico Russo. All’angolo di via Carini, a Palermo, due motociclette e un’auto affiancano la A112 del generale e fanno fuoco. Cosa nostra alza il tiro contro le istituzioni e uccide il “prefetto scomodo”, la moglie e l’agente della scorta, la sera del 3 settembre 1982 in una Sicilia già martoriata dallo scontro frontale fra la mafia e lo Stato costato la vita a magistrati, politici e giornalisti. Giunto in città da poco, Dalla Chiesa era stato già al centro dei fatti più importanti accaduti in quegli anni in Italia: dalla lotta al terrorismo, al sequestro Moro, dal Caso Mattei agli scandali della P2.
In Sicilia Dalla Chiesa era giunto con una procedura d’urgenza, poco dopo l’omicidio del segretario siciliano del Pci Pio La Torre (al quale oggi il Comune di Comiso ha deciso di negare l’intitolazione del proprio aeroporto), in anni in cui Cosa nostra aveva già colpito la politica oltre che le istituzioni con gli omidici, fra gli altri, di Piersanti Mattarella (ucciso il 6 gennaio del 1980) a Michele Reina (assassinato il 9 marzo 1979). “Mi mandano in una realtà come Palermo a fare il prefetto con gli stessi poteri di quello di Forlì”, questa una delle più accese critiche che da subito il Generale fece arrivare a Roma e alla Regione Sicilia. Inviato a combattere una guerra nel pieno del suo svolgimento senza mezzi, né uomini, né risorse adeguati, il generale giunto a Palermo aveva chiesto al Governo ed in particolare all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, il conferimento di poteri aggiuntivi, per poter assumere una sorta di posizione di coordinamento delle attività investigative nella lotta contro la mafia. Dalla Chiesa aveva intuito con genialità e lungimiranza quello che in seguito Rocco Chinnici ed infine Antonino Caponetto porteranno avanti insieme al pool di magistrati fra i quali, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: Cosa nostra non poteva essere sconfitta se non con un lavoro unanime e coordinato da un ufficio centrale.
Una intuizione che non riuscì a portare a compimento in prima persona, anche per il mancato appoggio delle istituzioni dell’epoca tanto che il pm Nino Gozzo, dichiarerà durante il processo portato avanti da Giovanni Falcone che quelli di Dalla Chiesa “fu un delitto maturato in solitudine” aggiungendo anche “Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volontà di intervento dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso”.
Ancora una volta le armi di Cosa nostra erano arrivate prima delle leggi dello Stato. Oggi, in una Palermo decisamente cambiata (come ha affermato di recente la vedova dell’imprenditore Libero Grassi, Pina Maisano Grassi) ma che corre ancora il rischio di fare passi indietro (come ha sottolineato il questore uscente di Palermo, Giuseppe Caruso) si ricorda il sacrificio del Generale Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo. Lo fanno gli esponenti delle istituzioni presenti nel capoluogo siciliano (Dal ministro Alfano, al capo della polizia Antonio Manganelli, al sottosegretario dell’Interno Michelino Davico), lo ricorda il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che in una nota scrive ” ricordo con immutata commozione il prefetto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e il coraggioso agente della scorta Domenico Russo, vittime di un barbaro atto di violenza eversiva che intendeva affermare il predominio del potere criminale mafioso sulle leggi dello Stato e minare le basi della convivenza civile”. Ma li ricordano soprattutto la gente comune, la Palermo della società civile, le associazioni impegnate nel contrasto alla mafia che proprio ieri sera si sono riuniti in piazza Ficuzza per un’iniziativa promossa dalla Cooperativa Lavoro e non solo (che gestisce beni confiscati nel palermitano) l’Arci Sicilia, l’Arma dei Carabinieri, il Comune di Corleone e la Cgil, per “ripartire dalla memoria e ricostruire il futuro”.
E in questo ventiseiesimo anniversario più di altri c’è aria di nuovo. Le recenti operazioni della polizia stanno incidendo notevolmente sulla struttura militare di Cosa nostra, i commercianti che denunciano il pizzo, anche. Le espulsioni annunciate ieri dal presidente della Confindustria, Lo Bello, danno il segnale che non solo a parole ma anche nei fatti qualcosa si muove. E il processo potrebbe innescare effetto domino, come è avvenuto per la confisca dei beni ai mafiosi. Una nuova società civile, in gran parte figlia di quella stessa società che durante i funerali di Dalla Chiesa manifestò ai politici il proprio dissenso, oggi chiede ancora alla classe politica palermitana di prendere una posizione netta. Tutti segnali di una Palermo che cambia e che ha fatto tesoro di una importante verità che il generale ha lasciato alle istituzioni e ai cittadini, ripetendo spesso “lo Stato dia come diritto quello che le mafie danno come favore”. Aveva capito sino in fondo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, cosa in terra di Sicilia mancava in quei dolorosi e controversi anni ’80 e cosa ancora oggi rallenta la crescita sociale ed economica della regione: uno Stato che risponda maggiormente alle esigenze dei cittadini onesti e, a distanza di ventisei anni dall’omicidio del generale, una società civile che si assuma la responsabilità di fare scelte diverse, “irregolari”. Libere.
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