“Su via D’Amelio siamo un Paese che ha rinunciato a sapere”
Magistrati, amici e colleghi, testimoni di un’epoca che non c’è più. Stamattina a Palermo hanno ricordato il giudice Paolo Borsellino, nell’aula Magna del Palazzo di Giustizia, luogo simbolo degli interventi pubblici più importanti negli anni caldi della lotta alla mafia. L’hanno ricordato soprattutto attraverso l’esempio morale e etico che ha lasciato loro. Borsellino, il magistrato ma soprattutto Paolo, l’uomo, capace di creare il solco per scelte che hanno contribuito a cambiare la storia di questo Paese. Lui che – commentano i presenti – dentro e fuori dall’esperienza del pool antimafia “non ha mai smesso di difendere, anche pubblicamente, con sobrietà, compostezza e lucidità e soprattutto equilibrio, i valori della Costituzione, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”.
Temi caldi questi, soprattutto oggi. Così al ricordo di Paolo durante la commemorazione, si associa anche molto altro. A parlarne il presidente della Corte d’Appello, Armando D’Agati, il presidente della giunta distrettuale della An, Guido Lo Forte, il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Enrico Sanseverino, Giacomo di Natali della Giunta esecutiva centrale della Anm e il sostituto procuratore Repubblica di Palermo, Antonino Di Matteo (che lo ricordano in una sala nella quale mancavano però i palermitani, la società civile). Presenti in aula fra gli altri, Rita e Manfredi Borsellino, Antonio Ingroia, Giancarlo Caselli, Rosario Crocetta, Roberto Scarpinato.
Tutti restituiscono attraverso i loro interventi frammenti di una storia che ha avuto momenti importanti nei quali – ricorda Guido Lo Forte – “grazie al lavoro di Paolo e Giovanni, si era dato vita ad un metodo di lavoro che ancora oggi consente a tutti noi di raccogliere i frutti positivi di quell’intuizione fondamentale e rivoluzionaria” e altri molto difficili: “dopo la bagarre mediatica, lo svuotamento istituzionale del pool antimafia”. Nonostante i traguardi raggiunti nella fase repressiva della lotta contro le mafie – continua Lo Forte – ci sono ancora troppi silenzi, troppi vuoti che a distanza di 16 anni dalla strage di via d’Amelio non ci consentono di dire che il bilancio della lotta alla mafie è in positivo”. “La lotta contro Cosa Nostra è infatti in grave ritardo – commenta nel suo intervento il presidente dell’ordine degli avvocati, Sanseverino, per due ordini di motivi: da un lato l’incapacità di leggere le zone di contiguità con la classe politica e dall’altra il fallimento di una politica giovanile, sotto il profilo culturale e della legalità; “se Cosa nostra riesce a riorganizzare le sue fila, a fare ancora adepti – osserva Sanseverino – il motivo sta nel fatto che lo Stato non è ancora riuscito concretamente a rendere vicina una reale alternativa di vita ai cittadini, soprattutto nei quartieri poveri o ad alto rischio”.
In molti, durante la mattinata ricordano di Paolo Borsellino la singolare capacità di parlare chiaro, senza fraintendimenti e remore, precursore di quello che sarà un “modo di essere magistrati”: misurando gli interventi pubblici ma non lesinando di far sentire la propria voce quando a vacillare erano i principi cardini della democrazia. E stamani, nell’aula magna del Palazzo di Giustizia, in coda agli interventi, è stato Antonino di Matteo, (oggi sostituto procuratore di Palermo) a parlare chiaro, proprio come faceva Borsellino. Di Matteo che ha fatto parte del team di magistrati che ha indagato sulla strage di via d’Amelio ha pronunciato parole d’incitamento ma anche di drammatica delusione: “Io mi chiedo – dice Di Matteo che Paese è un Paese che ha rinunciato a sapere la verità? Un Paese nel quale di fronte all’emergere di stralci di procedimenti giudiziari circa le responsabilità di soggetti non organici a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio si è lasciato tutto nel silenzio e l’informazione non ha informato. Che Paese è, infine, quello in cui si è rinunciato al diritto dovere di essere informati su pagine così complesse della nostra storia? Quello intorno alle indagini sulla strage non è stato – continua di Matteo – un calo di attenzione fisiologica, c’è stato qualcosa altro” .
“Se Paolo oggi fosse qui, ne siamo certi – prosegue di Matteo riferendosi alla situazione della magistratura oggi – si sarebbe schierato dalla parte della Costituzione, dell’articolo 3, in particolare, avrebbe fatto sentire la sua voce in tutte quelle occasioni nelle quali l’autonomia e l’indipendenza della magistratura viene messa in grave pericolo, come di questi tempi. “Per potere indossare serenamente la stessa toga che indossava lui abbiamo l’obbligo e la necessità – ricorda in chiusura Di Matteo – di esprimere pubblicamente la nostra posizione su questi e altri problemi che minacciano pesantemente la magistratura in Italia”.
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