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“Cibo all’amianto”, ad ottobre la prima udienza

Di Norma Ferrara il . Dai territori, Sicilia

L’affare è stato dei più
semplici, tanto semplice da non crederci. E’ accaduto a San Filippo del Mela, provincia di Messina, su un terreno che dal 1958 al 1992 ha ospitato gli
stabilimenti della Sacelit, azienda che produceva materiali d’edilizia in
amianto e cemento. Chiusa dopo che la legge 257 /92 sancì la messa al bando
dell’amianto e la sua pericolosità, la Sacelit sorgeva su una striscia di terreno stretta
da altri due impianti “ad alto potenziale inquinante” come l’Enel e la Raffineria Mediterranea.

Dopo 35 anni di attività su 212 operai che hanno lavorato negli stabilimenti
della Sacelit, 123 operai e 20 loro familiari si sono ammalati di mesotelioma
pleurico, asbestosi e carcinoma polmonare; 97 di loro sono morti. Il processo contro la Sacelit, oggi Nuova
Sacelit (in mano ad uno dei gruppi italiani più importanti, la Italcementi) si è
concluso, dopo un lungo calvario giudiziario, lo scorso 3 giugno. Il risarcimento da parte della Nuova Sacelit è
di 7 milioni di euro complessivi.

Nel 2002 un imprenditore, Rosario Runza, proprietario
della Punto Industria s.r.l., della grande
catena di distribuzione Consorzio Europa Discount decide che quel terreno, nella
frazione di Archi (San Filippo del Mela), diventerà un deposito di derrate alimentari;
acquista il terreno dalla Nuova Sacelit e chiede le necessarie autorizzazioni.
Tre medici dell’Asl n. 5 di Messina (Massimo Bruno, Guido Tripodi, Francesco Faranda) rilasciano
la certificazione (i primi due controfirmando un certificato rilasciato dalla
ditta “Sud Engineering” attestante l’avvenuta decontaminazione del capannone
della Sacelit, l’ultimo firmando il certificato di “restituibilità” dell’area). Nell’ottobre 2006 il Comitato ex esposti
amianto solleva seri dubbi sulla reale salubrità dell’area. Nel mese di gennaio
2007 una Commissione d’inchiesta del
Ministero dell’Ambiente (gestione Pecoraro Scanio) invia esperti e medici per un
sopralluogo dell’area che infatti risulta “non adeguatamente bonificata”. Contestualmente partì un’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Domenico Musto
le cui indagini preliminari si sono
chiuse nel maggio scorso. Nel provvedimento di chiusura delle indagini
preliminari si legge: “quando i medici sono entrati sul territorio hanno
rilevato la presenza di copiose quantità di fibre di asbesto, pericolose alla
salute dei lavoratori che non disponevano di aria salubre e alla salute
pubblica dei consumatori, come accertato in particolare sulla base delle
relazioni esiti degli esami al microscopio dei campioni prelevati dall’Ispesl
di Roma e Messina”.

I capi d’imputazione per l’ imprenditore Rosario Runza, proprietario della Punto Industria s. r. l, sono
di: aver esposto a rischio i propri dipendenti
e, in concorso con i tre medici della Asl 5 di Messina, aver messo in commercio
sostanze alimentari nocive alla salute pubblica. Allo stesso Rosario Runza è contestata anche
la violazione delle norme (di cui Dpr 303 del 1956) sulla sicurezza nei luoghi
di lavoro e in particolare: la violazione della norma che imponeva di adottare
provvedimenti “atti ad impedire la diffusione di polveri di amianto all’interno
dei luoghi di lavoro e il mancato controllo medico periodico dei soggetti a
contatto con le sostanze nocive”.

Dopo i
212 operai della “Fabbrica della morte”, altri operai hanno lavorato a contatto
con le fibre killer. Prodotti alimentari e non, sono giunti nei supermercati e
quindi ai singoli consumatori, contaminati da fibre di amianto. Ad oggi la Procura della Repubblica
di Barcellona pozzo di Gotto (Me), grazie al pm Domenico Musto, ha reso operativa la
bonifica del territorio e la decontaminazione delle singole derrate. Il
sostituto procuratore Musto annuncia che
in autunno ci sarà la prima udienza che tenterà di far luce su ragioni e responsabilità
di questa autorizzazione.

Rimane infatti da stabilire per quale ragione alcuni medici di un ente pubblico hanno autorizzato
la nascita di un deposito di derrate alimentari senza verificare la reale
salubrità del terreno sul quale per 40 anni lentamente sono stati condannati a
morte già 97 operai e loro familiari. Fra
pochi mesi forse sapremo di più sulle
ragioni di questo deposito di “cibo
all’amianto”.

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