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Alcamo e la strage della casermetta

Di Rino Giacalone il . Dai territori, Sicilia

Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo,  per far diventare la Sicilia stato americano.

 

In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se  ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Era la notte del 26 gennaio 1976, la mattina successiva due agenti dell’allora «squadra politica» della questura di Palermo di scorta al segretario Msi Giorgio Almirante passando da Alcamo Marina videro il cancello aperto e la porta della stazione sfondata, diedero l’allarme dentro furono trovati i corpi di Carmine Apuzzo, carabiniere semplice, e Salvatore Falcetta, appuntato, crivellati a colpi di pistola.

 

Al delitto di mafia pensò subito la Polizia, i Carabinieri con le loro indagini presero altre direzioni, inquadrarono il movente nella vendetta di una sorta di anarchico, Giuseppe Vesco, lo arrestarono, lui accusò altre 4 persone, poi ritrattò e disse che altri erano stati i suoi complici, prima di uccidersi in carcere. Vesco aveva fatto i nomi di Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e due minorenni, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Secondo il racconto di Vesco Mandalà avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica, a sparare sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, Ferrantelli avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. I 4 arrestati confessarono dopo estenuanti interrogatori successivi al loro arresto avvenuto il 13 febbraio successivo all’eccidio dei carabinieri della «casermetta», ma davanti al procuratore ritrattarono, raccontarono delle torture subite e delle confessioni estorte. Vesco nel frattempo cambiava versione e assumeva ogni colpa su di se rilevando che «altri soggetti erano stati suoi correi».

 

Fu trovato morto, suicida, in carcere. Erano trascorsi pochi mesi dalla strage e dall’arresto. Privo di una mano Vesco riuscì ad impiccarsi con una corda sistemata in una finestra della cella a due metri da terra. Erano dei balordi, questa la conclusione di un tormentato iter giudiziario, concluso da condanne, scaturite da una serie di atti contenuti in faldoni dove oggi le indagini riaperte non hanno tardato a riconoscere che ci sono elementi più per assolvere che per condannare. Giovanni Mandalà di Partinico, è uscito da questa storia perchè deceduto,Vesco come si diceva si è suicidato prima ancora di presenziare al processo di primo grado (che si era concluso con le assoluzioni per tutti tranne che per Mandalà), Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti via dall’Italia e sono in Brasile al sicuro dall’estradizione (condanne definitive rispettivamente a 14 e 22 anni anche per la loro minore età all’epoca del duplice delitto), unico a finire a scontare la pena, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta: lui ha presentato istanza di revisione del processo (con l’avvocato Pardo Cellini), indicando la persona che lo (li) scagiona, un ex brigadiere dei carabinieri che ha svelato che in quei giorni a tavolino fu deciso di incolpare quei ragazzi della morte dei due carabinieri, torturati e minacciati, costretti a confessare.

 

È stato il quotidiano «La Stampa» e il giornalista Francesco La Licata a raccogliere il suo racconto dopo che una puntata della serie «Blu Notte» di Carlo Lucarelli, ha rilanciato i misteri di quella strage «Nel 1976 – raccontò l’ex brigadiere a La Licata – facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad Alcamo per indagare sull’uccisione dei due militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. E’ vero che i giovani fermati furono torturati. Io stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e due pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». «Ci sarebbe – svela La Licata in un suo articolo riprendendo ancora la confessione dell’ex brigadiere dell’Arma – anche una registrazione audio dove è impressa la voce dell’ufficiale che quella notte dirigeva le operazioni».

 

Giuseppe Gulotta da tempo ormai vive in Toscana, con moglie e un figlio, ha trascorso 17 anni in carcere, da poco ha ottenuto il regime di semi libertà. la sua storia e complessivamente quella della strage è stata anche ripresa e ricostruita da una settimanale locale a Trapani, «QP» e dal giornalista Maurizio Macaluso. Gulotta pochi giorni addietro hanno riferito i quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia» è stato sentito in procura a Trapani: ha detto ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di non avere mai ucciso nessuno. «Mi sono commosso – ha raccontato Gulotta a La Licata per “La Stampa” – quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo».

 

È partita una sorta di caccia – investigativa – su chi può avere ucciso i due carabinieri. Sui depistaggi e le torture, svelati dall’ex carabiniere, niente si può più fare, reati prescritti, ma su chi ha sparato, ancora è possibile indagare. Si stanno rileggendo vecchi atti giudiziari, ma anche verbali non proprio antichi, ce ne sono anche risalenti al 1999. Pentiti che parlando di quegli anni ’70 hanno confermato l’esistenza di piani di attacco allo Stato concordati tra mafia, eversione di destra, settori deviati dello Stato. Circostanze che non sono nuove raccontando di quell’Italia del 1976, travolta dalla cosidetta «strategia della tensione», anni dopo si scoprirà che c’erano «poteri forti» come la massoneria, servizi segreti che servivano infedelmente lo Stato, a disposizione di politici rimasti nell’ombra, avevano stretto «patti» con uomini del terrorismo, della mafia, delle organizzazioni criminali. Uno «scambio di favori» per il quale tantissima gente è finita vittima innocente di bombe e attentati. La mafia fece parte di quel piano, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. Ciò che avvenne in quei giorni di gennaio ad Alcamo sembra proprio frutto di una strategia. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Nella notte del 26 gennaio vennero truicidati i due carabinieri. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. Un quadro esatto di quello che accadeva in quegli anni in provincia di Trapani lo scrisse in un rapporto, del 2 dicembre 1976, il capo della squadra Mobile Giuseppe Peri: mafia ed eversione di destra alleate, colpevoli dei crimini del tempo, forse anche dell’incidente aereo del Dc9 caduto a Montagna Longa.

 

Nella vicenda della strage della casermetta  spunta anche il nome di Peppino Impastato, il giornalista ucciso nel 1978 dalla mafia a Cinisi. I carabinieri andarono anche nella sua abitazione a fare perquisizioni cercando prove di un coinvolgimento della sinistra extraparlamentare in quella strage e da Impastato fu trovato un volantino sulla strage della casermetta e che raccontava altro, denunciava che le indagini erano apposta pilotate verso ambienti politici della sinistra,un volantino scomparso,nei faldoni del processo per la uccisione dei carabinieri Falcetta e Apuzzo non se ne trova traccia, c’è il verbale di perquisizione in casa Impastato, ma quel volantino non c’è.

In fin dei conti in questa vicenda questo sembra essere il passaggio più marginale. Ce ne sono di altre cose strane, anomale, alle quali la procura di Trapani oggi sta provando a fare chiarezza. Muovendosi doppiamente in maniera cauta, per il riserbo investigativo ma anche perchè i protagonisti di questa storia sono ancora «operativi».

 

Ci sono indagini che in questi anni hanno riproposto scenari aggiornati rispetto a quelle commistioni del 1976, il «sistema» è rimasto in piedi, magari ha cambiato funzionamento e addentellati, si può anche essere chiamato «Gladio» o qualcos’altro, può avere avuto trovato utili riferimenti nelle logge massoniche di Palermo e Trapani o anche di Mazara del Vallo, dove c’erano comunque dei «punciuti» o per i riti esoterici o per quelli mafiosi, o per tutte e due le cose.

 

Mentre Giuseppe Gulotta è tornato in Toscana alla sua semilibertà, e Ferrantelli e Santangelo stanno in Brasile. L’ultima volta furono rintracciati dai carabinieri, alcuni anni addietro: i militari partiti apposta da Trapani pedinando un sacerdote che faceva il fattorino per conto delle loro famiglie avevano, annunciato  il loro arresto poi però negato, niente estradizione. Anche allora Ferrantelli e Santangelo dissero che loro non hanno mai ucciso nessuno.

 

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