Massoneria e mafia, il patto d’acciaio attraversa l’Umbria
Non solo Sicilia e non solo mafia dietro la catena di arresti che sono scattati ieri su mandato della Dda di Palermo dopo 4 lunghi anni di indagini condotte fra Trapani e Agrigento ovvero Castelvetrano e Mazara del Vallo, gli avamposti della mafia più sconosciuta.
L’inchiesta denominata Hiram (in gergo esoterico, una colonna portante della Massoneria) ha portato alla luce un sodalizio criminale tra mafia e massoneria volto ad “insabbiare”, rallentandoli o aggiustandoli, processi di mafia. Dall’ indagine emerge che boss mafiosi grazie all’aiuto di persone appartenenti a logge massoniche, avrebbero ottenuto, dietro pagamento di tangenti, ricatti e favori, il rallentamento di iter giudiziari di alcuni processi in cui erano imputati affiliati delle cosche del trapanese e dell’agrigentino, in sostanza “amici” del boss latitante numero uno, Matteo Messina Denaro. Comandi che partivano dai mandamenti di Cosa nostra siciliana e che utilizzavano due intermediari umbri come terminale ultimo dentro i palazzi di Giustizia. L’ inchiesta che ha svelato l’esistenza di questo insospettabile patto “mafioso – massonico” ha portato in manette, l’orvietano Rodolfo Grancini, 68 anni, faccendiere dalle amicizie altolocate e Guido Peparaio, 55 anni, ausiliario di cancelleria presso la seconda sezione penale della Corte di Cassazione a Roma e per molti anni in forza al Palazzo di Giustizia di Perugia.
A Trapani mafia e massoneria da tempo, come dimostrano tutte le indagini dagli anni ’80 ad oggi, sono vasi comunicanti: l’onorata mafia trapanese, già ai tempi del boss Mariano Agate, sedeva nel circolo Scontrino che altro non era che una loggia massonica affiliata, via Iside 2, alla più nota P2 di Licio Gelli. Giornalisti, magistrati e inquirenti di vario ordine e grado hanno seguito negli anni questa commistione fra mafia e poteri occulti e quasi tutti hanno scorto in lontananza una pista che porta dritta al centro Italia: sospetti e non prove, però. Ma questa volta c’è un dato in più.
Perquisizioni, intercettazioni telefoniche e indagini sui conti correnti bancari di otto indagati hanno portato alla luce il ruolo centrale svolto nella “rete” dall’orvietano Rodolfo Grancini al quale la Dda ha contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (in aggiunta a quelli di peculato, corruzione in atti giudiziari, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari e rivelazione di atti di ufficio). Grancini ad Orvieto era un po’ di cose insieme: faccendiere per conto della Giustizia, fondatore della sede Orvietana del Circolo Dell’Utri ed attualmente segretario del rinomato “Circolo del buon Governo”, circolo fra i più affollati della penisola e al quale risultano iscritti un’ ottantina di soci siciliani, una quindicina di alti prelati, un paio di ambasciatori, una ventina di dirigenti ministeriali ( circa duecento mila iscritti in totale).
Secondo gli inquirenti Grancini si sarebbe avvalso di persone “prezzolate”, alcune già note agli inquirenti, e altre ancora non identificate per mettere a punto un “sistema” che gli consentiva di acquisire notizie riservate sullo stato dei procedimenti e di pilotare la trattazione dei ricorsi proposti alla Suprema Corte dai suoi “assistiti”. Braccio operativo del congegno, il secondo arrestato, attualmente condotto in carcere a Regina Coeli, l’ausiliario di cancelleria Guido Peparaio, al quale il Gip di Palermo Roberto Conti nel provvedimento emesso su richiesta dei procuratori Francesco Messineo e Roberto Scarpinato, contesta i reati di associazione esterna, divulgazione di notizie informatiche coperte da segreto e concorso in corruzione.
Nell’ambito dell’inchiesta due avvisi di garanzia sono stati recapitati anche al Grande Maestro Stefano De Carolis, esponente di spicco della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia e al padre gesuita Ferruccio Romanin, al quale, secondo l’accusa, sarebbero state fatte scrivere lettere dal faccendiere orvietano per “raccomandare alcuni imputati di mafia”. Orvieto è già da tempo attenzionata dalla criminalità organizzata targata Camorra, che nella Rupe aveva deciso, come emerge nei verbali della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, di trasferire sostanze altamente tossiche, presso la discarica “Le Crete” e che portò ad avvisi di garanzia per potenti politici locali in affari, secondo la Procura, con alcune famiglie del capoluogo napoletano.
Ma questa è un’altra storia, l’ennesima silenziosa storia, che parla di mafia in Umbria, ultima frontiera della mala che cerca regioni “vergini” nelle quali lavare il denaro sporco e far circolare traffici illeciti. A giudicare dai primi stralci emersi dall’inchiesta Hiram, l’Umbria, ospiterebbe anche “onorevoli” pedine di marchingegni masso – mafiosi, leggi anche logge massoniche deviate. Argomento tabù in Umbria più o meno come un tempo lo era parlare di mafia in Sicilia. Strana e sfortunata coincidenza.
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