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«Domenico, il figlio che non voglio più»

Di Tina Cioffo il . Campania, Dai territori

Il lutto è
stretto. L’abito e le calze sono nere, il tempo è ancora quello delle
condoglianze ma per Angela Pagano capostipite della famiglia Bidognetti e
vedova di Umberto ucciso a 69 anni, il 2 maggio con dodici colpi d’arma da
fuoco a Castelvolturno, è arrivato il momento di prendere le distanze dal
figlio Domenico, collaboratore di giustizia e cugino di Francesco
Bidognetti alias cicciotto e’ mezzanotte. Il suo, attraverso una lettera,
è l’estremo tentativo di una moglie per difendere la memoria del marito ed
evidentemente per evitare altre uccisioni. «Ci siamo conosciuti – racconta
– quando io avevo 14 anni e lui sette anni in più. La sua fronte è sempre
stata bagnata dal sudore e per lui è sempre esistito solo il lavoro per
tirare avanti prima i suoi figli e poi i suoi quattro nipoti».

Due i figli
di Salvatore e due i figli di Domenico. «Pensare – continua la donna – che
mio marito sia stato costretto ad avere un funerale come se fosse stato un
delinquente, mi fa rabbia». La rabbia è per Domenico, il figlio che «una
madre – dice Angela – non avrebbe mai voluto avere, perché la sofferenza
che ha causato e continua a causare alla mia famiglia è troppa e per
ognuno di noi, davvero immeritata. Ora non gli darei neppure un bicchiere
d’acqua». E l’esempio non è fatto per caso. Rifiutare l’acqua vuol dire
rifiutare la vita. «La nostra maledizione – aggiunge – è cominciata quando
Mimì ha scelto la malavita e sta continuando con la sua decisione di
essere un pentito». Grazie alle sue dichiarazioni gli inquirenti sono
venuti in possesso di importanti informazioni. Un pentimento che secondo i
familiari non sarebbe determinato da un reale rimorso ma «forse da una
vecchia caduta o da qualche problema di salute sopravvenuto con il
carcere». Sta di fatto che oggi, dopo l’assassinio di Umberto, per gli
investigatori una vendetta trasversale, per la famiglia Bidognetti guidata
da Angela Pagano, Domenico «non esiste più».

A dirlo è anche il figlio di
Mimì, Maurizio. Un ragazzo come tanti altri, dal viso più da bambino che
da adulto. «Dicono – afferma Rosa, madre di Maurizio e moglie di Mimì –
che mio figlio ha l’atteggiamento da camorrista ma basta guardarlo per
rendersi conto dell’esatto contrario». Quella mattina insieme al nonno
doveva esserci anche il giovane. La sveglia era suonata alle cinque del
mattino, ma per la madre è bastato vederlo placidamente dormire per farla
desistere e pensare «con il nonno ci andrà un’altra volta». «Una tenerezza
del cuore di mamma», tengono a precisare le due donne, Angela e Rosa.
«Quando è morto mio marito Umberto hanno ipotizzato che noi sapessimo, ma
quale moglie – chiede Angela – manderebbe un marito a morire?». Umberto
Bidognetti, con il clan non c’entrava niente. L’assassinio potrebbe però
essere un chiaro messaggio per impedire a qualcun altro di iniziare a
collaborare con i magistrati. Un modo per dire a chiare lettere «qui la
camorra c’è ancora ed è anche forte». La vittima così come tutti i
componenti della famiglia aveva rifiutato il programma di protezione e si
era dissociato per la seconda volta, dalle azioni del figlio che, il 19
marzo scorso, aveva definito in una lettera inviata in occasione
dell’anniversario della morte di don Peppe Diana, la camorra «male
assoluto» e i camorristi «semplici buffoni». «La verità – spiega la vedova
– deve essere ripristinata. Stiamo pagando colpe che non sono nostre e
nemmeno di mio figlio Salvatore che non si è mai tirato indietro nel
lavoro e che non mai avuto niente a che fare con la vita dei camorristi».
Parla con il fazzoletto in mano ma le lacrime non scendono, si fermano.
Vorrebbe che la sua vita fosse stata diversa. Ha avuto cinque figli. «Tre
si sono ammalati – ricorda – e due hanno fatto divertire il popolo».
L’espressione è tipicamente dialettale e a Casal di Principe vuol dire
aver dato modo alla gente di parlare. Lei invece vorrebbe avere il
silenzio anche da Mimì. A sperare il contrario sono però in
tanti.

(Il Mattino)

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