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Scorta mediatica, perchè rompe il senso di solitudine

Di Nino Amadore* il . Progetti e iniziative

Alcuni anni fa, quando ero giovane corrispondente del  Giornale di
Sicilia da un piccolo paese della provincia di Messina, un capataz
della mafia tortoriciana, uno che ho scoperto faceva il vivandiere per
i latitanti, mi disse: “Stasera ti aspetto davanti alla porta di casa
tua e ti spacco la testa”. Non aveva approvato, mi sembrò di capire, la
pubblicazione di una notizia. Gli dissi, con parecchia incoscienza, di
andare a quel paese. Non venne, ma il messaggio pubblico era passato.
Per almeno una settimana tornavo a casa con un pezzo di tavola
sottobraccio. Sarebbe servita a poco, oggi lo so, ma mi illudevo di
potercela fare. 

Ero abituato al linguaggio crudo dei prepotenti e dei mafiosi di
paese, non ero abituato ai messaggi obliqui  e ai misteriosi sfregi
sull’automobile che possono voler dire tutto e niente e proprio per
questo a mio modo di vedere più inquietanti. Ho voluto raccontare
questo episodio perché vorrei condividere con tutti i corrispondenti
dei giornali del Sud e non solo, con chi fa un lavoro prezioso da paesi
sconosciuti ai più ma molto conosciuti dai criminali e dalle mafie.
Con quei colleghi insomma che hanno ricevuto magari una minaccia
diretta, davanti al bar del paese, e non hanno avuto il coraggio o la
forza di denunciare. Oppure lo hanno fatto ma non sono stati
ascoltati. Io ricordo perfettamente le parole di un funzionario della
Regione che sottovoce mi disse: “Le consiglierei di non occuparsi più
di tale faccenda”. 

In questo caso si trattava di appalti pubblici con tanti, forse
troppi problemi. Gli “avvisi”, come li chiamo io, non sono mai casuali.
Anche quando lo sembrano. Un articolo, un intervento, una dichiarazione
pubblica possono provocare la reazione dell’interessato o di chi pensa
di poter fare una cortesia al protagonista o ai protagonisti di una
certa vicenda raccontata. Ho detto in più di una occasione che non si
può pensare alla mafia delle metropoli e parlare solo di ciò che accade
nei grandi centri. Perché c’è la mafia (non la mafiosità, attenzione)
che colpisce costantemente luoghi lontani dai riflettori. Lì la
vigilanza deve essere forte e costante: ai colleghi che lavorano in
quei paesi bisogna far sentire il nostro sostegno.

Credo che la scorta mediatica sia un’incredibile arma di
difesa perché stronca sul nascere il senso di solitudine e di
scoramento che ti assale quando trovi il danno e sopraggiunge quasi
immediata la beffa di chi ti invita a farti gli affari tuoi, a pensare
alla tua famiglia, a non cercare rogne con il tuo lavoro. Come se il
problema riguardasse gli altri e non il futuro nostro e dei nostri
figli. E come se fare il giornalista potesse essere solo un modo per
ottenere uno status, un inutile riconoscimento sociale. Raccontare e
analizzare i fatti, oggi, diventa invece l’imperativo assoluto. Perché
davanti alla debolezza della mafia militare resta da comprendere
l’inossidabile forza dei colletti bianchi e dell’area del consenso al
Cosa nostra e a tutte le altre mafie che in alcuni territori (non solo
della Sicilia) è ancora estesa.

* cronista del Sole 24 Ore

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