Risposta ai boss: noi giornalisti andiamo avanti
L’attacco ai giornalisti da parte dei boss della camorra è un
segnale di debolezza e rappresenta la mossa della disperazione dei clan
che sono sfiancati dalle inchieste della procura, gravati dalle
condanne all’ergastolo e stroncati dai sequestri di beni accumulati in
questi decenni. Diciamocela tutta: i camorristi, in particolare i
Casalesi, sono alle corde, ormai umiliati dalle cronache che svelano i
loro malaffari, forse non avevano tenuto conto del carcere a vita e
della confisca dei patrimoni.
E così dalle celle, o dalla latitanza, i criminali continuano a
dibattersi, per scaricare il nervosismo, come una lucertola a cui
tagliano la coda proseguono a dimenarsi, prendendosela adesso con chi
li ha smascherati, con chi ha reso pubblici i delitti commessi e le
ricchezze raccolte con i traffici illegali. L’atteggiamento di questi
clan assomiglia sempre più spesso a quello dei boss di Cosa nostra, ai
mafiosi sanguinari che per decenni hanno sporcato le strade della
Sicilia del sangue di politici, sindacalisti, magistrati, sacerdoti e
giornalisti. Uccisi anche per aver toccato i fili dei business mafioso.
E quando le cose sembravano, almeno in Sicilia, aver preso la via della
sommersione, del silenzio delle armi, i boss sono tornati a farsi
sentire, e in un caso anche a farsi vedere con la sfrontatezza che li
contraddistingue. Lo hanno fatto quando si è iniziato a raccontare
delle complicità della mafia, facendo nomi e cognomi di politici,
professionisti e medici che per anni sono stati al fianco dei boss. E
da quando i giornalisti hanno iniziato a contestualizzare i fatti,
ponendo la domanda «perché?», è stato allora che sono arrivati i primi
segnali intimidatori, le minacce di morte, fino a progettare un
attentato sotto casa mia, fortunatamente sventato. I boss, o forse gli
amici dai colletti bianchi dei boss, hanno perso la testa e continuano
a dimenarsi senza controllo.
Per fortuna, e lo ripeto spesso, la polizia di Stato, per il mio
caso, è sempre arrivata un attimo prima che i criminali attuassero il
loro piani. I poliziotti sono sempre riusciti ad anticiparli. Ma ciò
sembra non essere bastato, perché il volto della mafia è ricomparso più
minaccioso di prima. È rispuntato una mattina di ottobre da un carcere
di massima sicurezza, e a farlo è stato lo stragista Leoluca Bagarella
che, chiedendo e ottenendo la parola a conclusione di un’udienza di un
processo in cui era imputato di omicidio, ha puntato il dito contro di
me. Ha iniziato a inveire perché sapeva che ero l’autore di una notizia
che lo riguardava (come faccia un detenuto sottoposto al carcere duro
del 41 bis a sapere che una notizia pubblicata da giornali e ripresa
dai tg nasceva dall’Ansa e soprattutto chi fosse l’autore, per me
rimane ancora un mistero). E così Bagarella, dal collegamento in
videoconferenza, ha parlato di «quello dell’Ansa di Palermo».
Lui, il capomafia di Corleone, il cognato di Riina, l’uomo accusato
di decine di omicidi e di avere organizzato stragi, è uscito dall’ombra
ed è venuto allo scoperto per minacciarmi a viso aperto. Come adesso
hanno fatto questi due camorristi a Napoli. Vedete, i boss – a torto –
vivono spesso nel loro mito di essere mafiosi, e qualcuno anche di
essere un sicario delle cosche. Se ne vantano nei processi o in
carcere. Ma quando all’esterno vengono svelati i loro contatti, i loro
favoreggiatori dai colletti bianchi, i loro beni e le loro ricchezze,
allora sì che si arrabbiano e iniziano a innervosirsi. Nel libro «I
complici», che ho scritto con Peter Gomez, tutto questo intreccio è
stato svelato. Nomi e cognomi sono stati scritti, ma la politica,
nonostante ciò, sembra non averlo preso in considerazione. Gli unici
che lo hanno fatto sono stati i diretti interessati: Cosa nostra &
c. Eppure di politici moralmente collusi ve ne sono tanti, ma
nonostante ciò sono stati riproposti come candidati alle elezioni
politiche. Le minacce dei clan a Roberto Saviano, al magistrato
Raffaele Cantone e alla cronista del Mattino Rosaria Capacchione, le
cui azioni professionali sono da ammirare e incoraggiare, rappresentano
lo specchio della realtà criminale italiana. Perché la camorra non ha
paura che si parli della sua organizzazione; ha timore, invece, che si
svelino gli affari dei clan, e quando questi finiscono in un libro o
nelle pagine dei giornali, i boss vanno in tilt e partono all’attacco
di giornalisti e magistrati.
Quello che sta accadendo in Campania, come in Sicilia, è un fatto
unico nella storia giudiziaria italiana degli ultimi 50 anni: i
magistrati sono passati all’attacco dell’economia mafiosa, stanno
sequestrando i beni a camorristi e uomini di Cosa nostra. E in molti
casi stanno riducendo i boss «in mutande». Ma tutti dobbiamo fare la
nostra piccola parte, senza essere eroi, prendendo spunto dal coraggio,
che ha come radice la parola cuore. E per questo dico a tutti di
mettercelo, questo cuore, per affermare la legalità.
*Giornalista dell’Ansa di Palermo
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