Reportage di Repubblica su Trapani
«Trapani, anche se fu una roccaforte della mafia (proprio la vorrei mettere al passato questa gloria), è città gentile, e si trova ai margini dello straordinario paesaggio delle saline». Così Cesare Brandi, che alla fine degli anni Sessanta passa nel capoluogo trapanese, venendo da Palermo per recarsi a Mozia. Chi riveda Trapani oggi, non soltanto sottoscriverà l´idea della città gentile e riconfermerà l´indubbio fascino, vagamente pasoliniano, del territorio delle saline; ma prima ancora rimarrà stupefatto dalla bellezza del suo centro storico, finalmente restaurato nei suoi monumenti di maggior pregio, grazie (anche) all´occasione offerta dall´ «America´s cup» del 2005.
Percorrendo corso Vittorio Emanuele e via Garibaldi, la teoria di chiese e sontuosi palazzi barocchi compone una sorta di scenografia teatrale già perfettamente apparecchiata, al punto che verrebbe voglia di suggerire a Luca Ronconi di ripetere qui l´esperienza di un suo spettacolo ferrarese fatto in strada, davanti al Palazzo dei Diamanti, qualche anno addietro.
E non ho ancora detto del restauro del porto a sud, e di quello in corso sulle mura di tramontana, che restituirà ai trapanesi una spiaggia cittadina con un mare cristallino. Già, perché la vera peculiarità di Trapani è che ovunque ti rigiri, vedi comunque il mare, trattandosi di una lingua di terra che finisce alla Torre di Ligny, estremo lembo italiano proteso verso l´Africa.
Proprio al legame con il continente nero, ha dedicato un suo recente volume Salvatore Costanza: Tra Sicilia e Africa. Trapani. Storia di una città mediterranea (Corrao editore). Volendo orientarmi in questo tema, non avrei potuto trovare persona più indicata, essendo Salvatore Costanza assieme storico e giornalista (ha lungamente lavorato a L´Ora di Palermo). E dunque, combinando in sé rigore scientifico e predisposizione per la sintesi. «Trapani è una città siciliana anomala. Proprio per la sua natura marinaresca. Perché, al contrario di quanto si crede abitualmente, l´immagine predominante dell´isola per lungo tempo è stata rurale, contadina. Trapani invece nasce estroflessa, tutta rivolta al mare. Le faccio un esempio: i miei nonni conoscevano Algeri e Tunisi, ma non erano mai stati a Paceco, un paesino dell´interno a soli cinque chilometri da qui».
E questo vale ancora? «Ci arrivo subito. Ma prima vorrei sottolineare come la sua marginalità rispetto al contesto regionale, il suo rapporto strettissimo con l´Africa, abbiano rappresentato la fortuna di Trapani, quando il resto della Sicilia era in difficoltà. Qui facevano scalo le navi di mezzo mondo e noi vendevamo sale, corallo e tonno. Il Cinquecento fu il momento di massimo splendore: i ricchi commercianti diventarono patrizi e si costruirono quei palazzi barocchi che l´hanno tanto colpita. Il primo declino risale al Settecento, parzialmente recuperato grazie al taglio di Suez del 1869 e alla ripresa dei commerci con l´Oriente. Infine, dall´inizio del Novecento la storia della città si fa sempre più triste. Trapani non rappresenta più una testa di ponte verso l´Africa, ma semplicemente il nostro confine nazionale. Non potendo più volgersi al mare, le grandi famiglie ripiegano all´indietro, verso la terra. E diventano latifondisti, non imprenditori agricoli. Voglio dire che i soldi, anziché investirli per migliorare la produzione, preferiscono metterli nelle banche, che da un certo punto in poi nascono a decine, come funghi».
Ringrazio Costanza per l´efficace quadro storico e riesco in strada. È domenica mattina e il traffico impressionante mi disorienta. Che fanno i trapanesi, tutti in macchina, in un giorno di festa? È chiaro, passeggiano: seduti nell´abitacolo chiacchierano, si salutano da un´auto all´altra, e viaggiando a dieci chilometri all´ora si godono la loro originale forma di flãnerie. Del resto, sempre a proposito di anomalie: è davvero strano che con un mare e con un clima come questo, non vi sia un solo bar che si affacci sull´acqua, offrendo all´eventuale cliente l´occasione di bersi in santa pace un bitter e leggere i giornali al sole di una primavera anticipata.
Sciocchezze, direte voi.
E in effetti lo sono. Grave invece è lo stato in cui versano ancora tante case del centro cittadino, e caotico è l´affastellarsi intorno ad esso dei quartieri moderni sorti nel corso degli ultimi decenni. In certi casi, si tratta degli stessi anonimi e grigi condomini che si possono vedere in ogni altra città italiana. In altri, c´è qualcosa di peggio: si avverte un senso di degrado e abbandono, che prende alla gola. Risultato: di fronte a tale, specialissima fusion di splendore e desolazione, mi piacerebbe misurare la reale temperatura economica della città. Ma dopo aver parlato con personalità eminenti, appartenenti ai più diversi ambiti, mi accorgo che non ho affatto capito se Trapani è una città povera, ricca, o se si barcamena alla meno peggio. Comunque, non appena comincio a inerpicarmi su per la strada che conduce ad Erice, le curiosità rimaste inevase sullo stato socio-economico del territorio, svaporano con grande rapidità. Sono rapito dall´incanto del luogo.
E per descrivervi questa sensazione non trovo di meglio che affidarmi ancora una volta a Brandi: «Lasciamoci fantasticare, è così fangosa la realtà, di un monte ripido che si eleva fra due mari: un monte di roccia grigia e spogliata, a tratti, come il mille foglie, ma anche coperto di prati e giovani boschi di pini e cipressi, giovani e fitti come vivai, e gentili come in Gentile da Fabriano». La giornata è insolitamente tersa (a Erice, la nebbia è una costante) e dopo aver camminato senza meta lungo i deserti acciottolati delle strade del paese che aprono improvvisamente su meravigliosi scorci e minuscole chiesette, decido di rimirare il panorama che si vede dal castello. Mi siedo su una panchina e davanti a un mare smisurato provo a enumerare mentalmente le tante bellezze che si raccolgono in questo fazzoletto di terra: Trapani, Erice, le Egadi, Segesta, Mozia….
Dunque tutto bene? Mica tanto. Su un punto infatti, devo purtroppo smentire l´auspicio dell´amato Brandi, che si augurava – quasi cinquanta anni fa – di lasciare finalmente alle spalle la triste gloria di questa roccaforte della mafia. Intendiamoci: i notabili del posto – immancabilmente gentili, ospitali, squisitissimi – nominano questa terribile parola, ma in modo un po´ automatico. Quasi fosse un´antica malattia che certo via via procura ancora danni e malesseri, ma dalla quale il corpo sociale si va poco per volta liberando. Grazie anche ai formidabili successi ottenuti negli ultimi anni da poliziotti e magistrati, ripetono in coro tutti quanti.
Il guaio però è che proprio parlando con questi ultimi, investigatori e procuratori della Repubblica, affiora un quadro completamente differente. La mafia trapanese non si è affatto indebolita, né tantomeno “ingentilita”. Al contrario: rappresenta il nucleo dei duri e puri dell´organizzazione. Sono loro i custodi di un´ortodossia osservata con la stessa ottusa fermezza dei fondamentalisti religiosi. Al punto che, nel corso di recenti dibattimenti processuali, i boss trapanesi hanno pubblicamente irriso le imperdonabili ingenuità commesse da ben più famosi capi – clan palermitani o catanesi. Aggiungo che quelle di poliziotti e magistrati non sono affatto illazioni, supposizioni, suggestioni. Sono il frutto di quanto è emerso da concretissime indagini, processi, condanne, che hanno portato in galera politici, funzionari pubblici e anche imprenditori. «È questo il salto ulteriore che chiediamo alla Confindustria dopo la coraggiosa scelta di invitare i propri affiliati a denunciare il pizzo», affermano. «Ora si tratta di riconoscere che tra gli stessi imprenditori non vi sono soltanto vittime, ma anche aguzzini».
Il livello di corruzione legato al controllo mafioso, mi dicono i miei interlocutori, è capillare. La quantità di soldi che arriva soprattutto dalla comunità europea è impressionante e per aggirare le regole di attribuzione si attuano essenzialmente due strategie: ci si procura il giusto appoggio per vincere l´appalto in gare truccate, e si pratica la sovraffatturazione (ad esempio, dichiarando l´uso dell´acciaio e utilizzando invece il ferro). Questo vale sia per le commesse in sede locale, che per i fondi europei, il cui utilizzo sovente dà vita a imprese fittizie, che neppure cominciano la loro attività. Il sostituto procuratore Andrea Tarondo mi racconta ad esempio di un imprenditore (si fa per dire) vinicolo che, prima di finire in galera, aveva ricevuto la bellezza di 70 milioni di euro. I miglioramenti previsti per l´azienda non sono stati mai attuati, ma nel frattempo questo signore, gonfio di denaro, si giocava trenta-quarantamila euro a settimana all´Enalotto.
Da quanto capisco però, la cosa più grave è che tale sistema criminoso si è insinuato nella forma mentis del trapanese, al punto da provocare la rimozione inconscia del fenomeno e un sentimento di inevitabile rassegnazione. Per questo gli investigatori sono scettici sulla possibilità che qui possano nascere movimenti popolari come quello dei lenzuoli bianchi di Palermo, essendo la paura e l´omertà così diffuse. E mi citano a riguardo l´espressione agghiacciante, quanto efficace nella sua icasticità, di un boss trapanese, che intima il silenzio così: «La lingua non ha le ossa, ma spacca le ossa». Dire che sono sconcertato è poco. Ero arrivato a Trapani elettrizzato dalla scoperta di una città tornata al suo antico splendore. Bella, raggiante, viva. E ora altre voci affermano che molta di questa bellezza è oscurata da una immensa macchia, scura e fangosa, «perché parte della ristrutturazione del porto, come altri interventi nel centro cittadino, sono assolutamente irregolari. E non ci si può rallegrare di una bellezza ritrovata, a prezzo di perdere le regole della democrazia».
C´è poco da aggiungere: lascio Trapani con il sentimento inquieto di non essere riuscito a penetrare nella sua misteriosa vita a specchio, double-face. E prima di raggiungere l´aeroporto di Palermo, decido di fare sosta a Segesta. Nel magnifico teatro greco, se Dio vuole, non c´è anima viva. In tempi lontani, però, fino a quattromila persone assistevano alle rappresentazioni delle più memorabili tragedie passate alla storia, ciascuna di esse coronata da una catarsi finale che donava un senso di consapevolezza e speranza, dopo l´orrore delle vicende rappresentate.
Non resta da sperare che anche la tragedia trapanese della mafia, al modo degli spettacoli degli antichi greci, conosca presto una benefica catarsi.
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