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Black out sul Caso Messina

Di Norma Ferrara il . Dai territori, Sicilia

E’ la storia
della “gestione Sparacio”. Ma è anche lo scontro fra Procure difficili, calunnie,
accuse reciproche e ricatti. Fatti di mafia e antimafia a Messina, terra di
conquista di Cosa nostra palermitana e del clan catanese dei Santapaola, crocevia
degli illeciti affari dello Stretto e pur sempre luogo in cui la mafia non c’è, per
definizione. Lo scorso 10 gennaio la
prima sezione penale del tribunale di Catania si è pronunciata dopo sei anni di
dibattimento sul cosiddetto “Caso Messina” condannando per favoreggiamento alla
mafia Giovanni Lembo, ex sostituto procuratore della direzione nazionale
antimafia a 5 anni di reclusione, Marcello Mondello ex Gip di Messina a 7 anni
per concorso esterno in associazione mafiosa e Luigi Sparacio, finto collaboratore di
giustizia, a 6 anni e 4 mesi di
reclusione. Il contenuto della sentenza è agghiacciante: a cavallo fra gli anni
’80 e ’90 la mafia e l’antimafia si mischiarono, confondendosi, dentro la Procura di Messina nel
segno della contiguità e ci sono voluti dieci lunghissimi anni d’indagini,
di sospetti incrociati fra le Procure di Catania, Messina e Reggio Calabria per
arrivare a discernere i fatti nonostante “inquinamenti probatori”, condizionamenti
e delegittimazioni dei testimoni dell’accusa. A far partire le indagini il
coraggio della denuncia di un avvocato, Ugo Colonna, all’epoca difensore di
pentiti, che per questa scelta vive oggi sotto scorta, ha subìto accuse di calunnia e persino un
periodo di reclusione (stabilito da un giudice di Catanzaro per “minaccia a corpo giudiziario”, con l’accusa
di aver dato dischetti di un processo – pubblico – a giornalisti ma in seguito
scagionato).

I fatti. Giovanni
Lembo, braccio destro del procuratore nazionale Vigna a Messina, veniva
arrestato nel marzo del 1998 con l’accusa di aver “gestito” le dichiarazioni
del pentito Luigi Sparacio, inserito nel programma di protezione proprio al
fine di sconfessare altri pentiti e scagionare il mafioso palermitano
Michelangelo Alfano capo di Cosa Nostra messinese, imprenditore ed ex
presidente del Messina Calcio. Il falso pentito Sparacio, che durante le
indagini ha ritrattato e fatto il doppio gioco con i magistrati, era all’epoca
considerato in Procura il nuovo Buscetta ma nonostante il programma di
protezione cui venne sottoposto ebbe libertà d’azione durante la detenzione e
continuò a gestire gli affari della “famiglia. I suoi racconti furono concordati, pilotati, aggiustati, per
salvaguardare lo status quo della mafia messinese. Contro il sostituto
procuratore e il Gip l’accusa ha riscontrato numerose prove: dalle
intercettazioni ambientali sino alle testimonianze di pentiti. E’ stata messa
agli atti una registrazione tra la suocera e la cognata di Sparacio, nella
quale si parla di ”un zu Gianni”, in cui la Dda identifica Lembo. Sono state ascoltate testimonianze
che proverebbero la frequentazione segreta Lembo – Alfano: incontri a casa
dell’imprenditore Santi Travia e del genero del boss palermitano. Risultano fra
l’altro affidati alle ditte dell’imprenditore Alfano (morto suicida nel 2005 a pochi mesi di
distanza dall’altro capomafia Cosimo Crifeta, anch’esso suicida) gli appalti
per la costruzione di alcune case di Giovanni Lembo; solo per citarne alcune. Il vice del procuratore Vigna, dal 1987 sino
al 1994 è stato un Pm di punta della Dna, a capo di indagini decisive anche
contro la criminalità organizzata, in particolare di Barcellona Pozzo di Gotto.
Uno dei pentiti che confermerà omissioni
e pressioni nella registrazione dei
verbali da parte di Mondello e Lembo sarà infatti Pino Chiofalo, capomafia del
paese del Longano (ma solo dal ’99 pentito attendibile). Dinnanzi al pm
Francesco Mollace, Chiofalo e altri pentiti parleranno, ritratteranno, per poi
riconfermare, incontri sospetti fra Alfano e Marcello Dell’Utri negli stessi
anni in cui numerosi pentiti parleranno della trattativa con il clan Santapaola
dopo gli attentati alla catena Standa di Berlusconi in Sicilia. Barcellona non
è un posto come gli altri nella provincia; dalla città del Longano partirà il
detonatore per la strage di Capaci e qui che verrà decisa ed eseguita la
condanna a morte del coraggioso giornalista Beppe Alfano. Fatti di rilevanza
strategica prima e dopo la fase stragista sull’asse di numerosi delitti di
mafia della provincia, come quello di Graziella Campagna.

Sono stati ritenuti
“inquietanti”infatti i rapporti tra il boss imprenditore Michelangelo Alfano e
il Giudice per le indagini preliminari Marcello Mondello in merito all’esito
del processo a carico di Gerlando Alberti junior accusato dell’omicidio
Campagna. Fu l’ex Gip Mondello, ora condannato per concorso esterno in
associazione mafiosa, a sancirne l’ archiviazione; il processo è stato riaperto.
La sentenza sul “Caso Messina”, di portata nazionale, è stata spenta da un lungo black out
dell’informazione, passato dalle reti del servizio pubblico radiotelevisivo
sino alla carta stampata nazionale. Sbattuto in prima pagina sul finire degli
anni ’90 il “verminaio messinese” oggi non fa notizia, eppure c’erano dentro: la Direzione nazionale
antimafia, una Procura e la storia di una provincia enigmatica. Fatti salvi
tutti gli altri gradi di giudizio questa sentenza è scomoda per la mafia ma
anche per l’antimafia. E forse da
raccontare c’era semplicemente troppo.

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