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La rassegna stampa della settimana

Di redazione il . Rassegne

Ci sono bombe che fanno rumore, anche sulle pagine dei quotidiani nazionali e altre che ne fanno decisamente meno. Ma tutte fanno drammaticamente notizia. In Campania lo scorso 4 febbraio, un attentato dinamitardo ha fatto saltare in aria nel cuore della notte tre attività commerciali a Marano. Le indagini della polizia, come sottolineano le cronache de Il Mattino e Napolipiù sono aperte in più direzioni. Racket, avvertimento o intimidazione, sembrano sin dalle prime ore le ipotesi più plausibili per quello che è già il terzo episodio in poche settimane. Tritolo troppo spesso al centro dell’attività dei clan ora anche per regolamenti di conti fra famiglie. Il blitz anticamorra, scattato nella notte fra il 4 e il 5 febbraio, ha portato all’arresto di 21 persone appartenenti ai clan di Acerra e sventato una strage ed alcuni omicidi. La moglie e la figlia del boss Ciro De Falco stavano infatti progettando un attentato dinamitardo capace di far saltare in aria un’ intera palazzina. “Facciamo come a Capaci” avrebbe detto uno dei camorristi intercettati mentre esponeva i piani alle due donne che dal giorno della morte del loro capofamiglia reggevano il clan e che con questo attentato volevano ristabilire i ruoli e precisare che «nonostante la morte di Ciro i soldi dovevano finire sempre alla famiglia De Falco».

Ed è sempre grazie alle intercettazioni che si scoprono segreti importanti, questa volta in Calabria. Alcuni boss, ascoltati dalla Dda di Catanzaro, svelano infatti che un uomo del clan Scardavaglia veniva scortato da alcuni uomini della Questura, per questo la sua eliminazione risultava piuttosto complessa. L’allarme è stato lanciato dalla Procura di Catanzaro e dalla Dda nel corso dell’audizione alla Commissione antimafia. Dai magistrati è arrivata una richiesta di maggiori mezzi logistici «per fronteggiare una vera e propria emergenza ‘ndrangheta» che come sottolinea il procuratore aggiunto Mario Spagnuolo, «meglio dello Stato e dei suoi rappresentati, si adegua al cambiamento della società calabrese». La matassa delle ‘ndrine calabresi si fa sempre più fitta e contorta, tanto da non distinguerne più volti, colori e sempre più spesso, parti in causa. Il 5 febbraio scorso la stampa calabrese racconta dell’ennesima minaccia delle cosche contro il presidente Loiero, e 24 ore dopo, lo stesso presidente della Giunta regionale della Calabria viene indagato nell’ambito dell’inchiesta Why not.

Parte dalla penna della giornalista Chiara Spagnolo sul Quotidiano di Calabria il racconto del back round affaristico che gravita intorno al consiglio regionale. Il presidente Loiero si dice “estraneo ai fatti” e soprattutto, perquisizioni a parte, chiede: “Quando tutto finirà chi risarcirà me e la mia regione?”. Intanto, nei giorni scorsi, alcune aziende in Calabria e in Sicilia sono state oggetto di intimidazioni. A Locri la ditta pugliese “Cave Magno” che in subappalto si è aggiudicata i lavori per la Statale 106 ha subito il danneggiamento di alcuni mezzi di lavoro. I clan locali non intendono rinunciare all’affare di ammodernamento della tratta che collega Gioiosa ad Ardore . In Sicilia, invece, ad essere danneggiata è stata l’impresa di autolinee Savit, in un autoparco vicino Gela. Il proprietario è anche il vicepresidente regionale di Federturismo. Nonostante il grande impegno di Lo Bello nel fare chiarezza in Confindustria Sicilia proprio in questi giorni si registra lo sfogo di Margherita Tomasello, presidente giovani imprenditori di Palermo che dichiara: “Basta parlare solo di antimafia. Tema rovente dunque quello del contrasto a Cosa nostra ma anche fitto di nodi mai sciolti. Lo scorso 7 febbraio arriva dall’inchiesta sulla strage di via D’Amelio l’iscrizione nel registro degli indagati dell’allora tenente colonnello Giovanni Arcangioli, ripreso dalle telecamere di tv nazionali mentre si allontana, dal luogo dell’esplosione con una borsa di pelle quella di Paolo Borsellino. Poco dopo la borsa verrà ritrovata nuovamente in macchina con alcune bruciature (prima non presenti). Dentro però l’Agenda Rossa, quella in cui come testimonia anche la moglie del magistrato, erano annotate tutte le ultime indagini, gli ultimi appuntamenti di Borsellino, non c’era più. Fatti misteriosi che coinvolgono ancora apparati istituzionali di primissimo piano vedono negli stessi giorni il rinvio a giudizio del prefetto Mario Mori e del colonnello dei carabinieri Obinu nel delicato processo in corso per “omissione nell’organizzazione di un adeguato servizio che portasse alla cattura” già nel 1995 del boss Provenzano a seguito delle dettagliate informazioni del boss Ilardo (in seguito assassinato da Cosa nostra, ndr).

Da Palermo però arrivano anche buone notizie, accolte con entusiasmo anche dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Si tratta dell’operazione Imperium, ovvero un sequestro per un valore di 308 milioni di euro, tesoro riconducibile per lo più a capimandamento di Palermo e provincia. La mappa degli immobili confiscati restituisce in un colpo solo due dati: negli anni 80 il cosiddetto sacco di Palermo è stato costruito interamente con il beneplacito di Cosa nostra; oggi però quasi tutto sta ritornarono delle mani dello Stato grazie alla legge 109/96. Un terreno decisivo nella lotta alle mafie, quello della confisca dei beni, come testimoniano anche le boss italo americani in cui sostengono che ormai è meglio andare via dall’Italia per “questa storia della confisca dei beni”. La settimana appena trascorsa si chiude proprio con gliultime intercettazioni fra i arresti fra i due mondi e il tentato ritorno degli americani che fra le tante manovre sommerse sembravano aver persino pronto un piano per l’eliminazione di un sindaco scomodo, Rosario Crocetta, primo cittadino di Gela. Piani definitivamente chiusi dietro le sbarre, si spera.

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