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Processo Fava, in teatro il dramma della memoria

Di Gabriella Valentini il . Dai territori, Interviste e persone

Duecentotrentaquattro udienze, 260 testi ascoltati, seimila pagine di verbali. Eppure, non se n’è saputo molto del processo “Orsa maggiore 3”, conclusosi solo nel 2003 con la condanna del boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano per l’omicidio di Giuseppe Fava, il giornalista fondatore de “I Siciliani” ucciso nel 1984.  Urgente e necessaria era dunque una piece come “L’istruttoria” -scritta dal figlio di Giuseppe, Claudio Fava- che in questi giorni è nei cartelloni dei teatri italiani e rappresenta la seconda collaborazione sul tema tra Fava e il regista Ninni Bruschetta dopo “Il mio nome è Caino”.
“L’istruttoria” riempie un altro buco nero di memoria e risponde con la propria messinscena alla domanda che si trascina lungo tutta la rappresentazione. Ha senso la memoria? Domanda tanto più grave quando è l’erede dell’ucciso a farsela. Hanno senso la stanchezza, la rabbia, il dolore che il ricordo procura? O talvolta non gioverebbe forse un pietoso oblio? A chi spetta questa fatica?

    In poco meno di un’ora non si pretende di riassumere 22 anni di deposizioni, interrogatori, indagini. Ma la scenografia minimalista, il canto dolente e composto dei Dounia, la messinscena sobria e rigorosa di Bruschetta e l’innegabile abilità degli attori hanno il merito di restituirci più che i dettagli dell’intera storia, gli atteggiamenti e le logiche delle figure coinvolte dal processo, di farci penetrare i loro sentimenti, di sentirne l’odore e il sapore. Sfilano in tutta la loro autenticità il killer Avola, l’editore Ciancio, il cronista Zermo: passano e ci danno la loro versione. Con una fedeltà che si deve soprattutto al talento mimetico di Gioè, efficacissimo nel registrare con parole e gesti ora il killer che gelidamente ricostruisce l’omicidio, ora il pavido giornalista, ora l’arroganza dell’imprenditore: senza mai eccedere, rendendo presenti a noi i personaggi, senza cadere nella trappola della caricatura, del colore, della maschera folkloristica. Il testo conserva saggiamente l’essenzialità dei verbali, concedendosi a brevi intervalli riflessioni sul senso del racconto come discrete note a piè di pagina. E’ una rappresentazione asciutta: asciutta nel modo e nella quantità dei fatti raccontati e asciutta nell’interpretazione dei personaggi. I dettagli sull’uso del silenziatore, le negazioni sfacciate del cugino del boss sono pezzi esemplari che non hanno bisogno di nulla, solo di essere ascoltati così come furono pronunciati. Così la celebrazione del processo come rito civile finisce per deformarsi in una tragedia paradossale, spesso con i toni infinitamente amari e feroci della commedia all’italiana.

    La sintesi teatrale de “L’istruttoria” sfuma sapientemente i contorni: così il respiro s’allarga e dal riassunto di un processo si trascende alla storia delle dinamiche mafiose nella Catania degli anni 80. Fava fu ucciso davanti a un teatro ed è salutare che ora il teatro ne racconti quel che seguì, così infine l’autore pare rispondere a se stesso. Non si può non ricordare, come il figlio non può scordare quel calzino rosso del padre sfuggito al lenzuolo bianco dell’obitorio. Sì, malgrado tutto, occorre ricordare e occorre ricordare tutti, insieme. Solo condiviso il peso della memoria sarà più leggero.

 

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