“Mafia, antimafia, nuove mafie” viste da Alessandro Leogrande
La Magistratura, all’apertura di ogni anno giudiziario, propone un bilancio dei risultati conseguiti. Ma è da troppo tempo che tra le voci più consistenti spiccano reati minori legati alla microcriminalità: furti, spaccio commessi da stranieri, spesso irregolari, a cui si dà la caccia. Nessun ragionamento serio attorno ai reati finanziari, al riciclaggio di denaro, alle sempre più intense relazioni di collaborazione tra mafia locale e mafie internazionali. Consumata quella tensione moralizzatrice di Mani Pulite, ora la Magistratura, hai scritto nel tuo ultimo editoriale, “fa notizia solo quando mette sotto inchiesta Lele Mora e Fabrizio Corona”. Quale funzione esercita la pretesa d’impunità del potere politico su questa “ingessatura” della responsabilità penale?
“Non possiamo dire che durante la prima Repubblica le cose andassero meglio: i poteri non erano in una posizione di indipendenza tale da essere da contrappeso. C’è stata la rottura di quel sistema nel ’92-’93 col ricorso alla magistratura quando la politica si è mostrata incapace di elaborare da sola dei cambiamenti. E questa dimensione di impotenza, assenza di autorità e consenso politico, è qualcosa che è rimasto, una volta esaurita la spinta sociale della stagione di Mani Pulite. Emblematico e attualissimo è il caso della depenalizzazione del falso in bilancio che ha fatto comodo ad una larga parte della “ mucillaggine” italiana. L’elemento dei paradisi fiscali o delle zone off-shore o del riciclaggio nell’economia globale, non riguardano uno specifico gruppo politico, ma investono un più ampio settore in cui il far da sé, cioè l’occupazione privata della cosa pubblica, la deregulation economica, entrava in una zona grigia in cui l’altro versante era la criminalità o la paracriminalità. Da questo quadro risulta un’estrema difficoltà di condurre inchieste giudiziarie nei confronti di una realtà che scavalca sostanzialmente lo stato nazionale. Ad esempio gli intoccabili paradisi fiscali, che sono il pane dell’economia, sono anche il sale della criminalità globale, un cono d’ombra dove gli interessi dell’economia si incontrano con le forme di impresa mafiosa moderna, e consentono di accumulare in tempi brevi capitali elevatissimi.
Antonino Ingoia osserva che “più la mafia si avvicina al potere più si incrementa la sua voglia di impunità”.
Come è possibile attenuare la distanza, non casuale ma programmata, che nella società contemporanea separa potere e giustizia? Contro un potere e una mafia che rifiutano la loro processabilità e agiscono per ottenere l’impunità assoluta, da dove cominciare per riaffermare principi egualitari?
Sono molto pessimista perché credo sia drammaticamente difficile arginare questa situazione in cui si creano delle aree di impunità.
L’unica cosa cui a volte fa ben sperare è vedere, nel fare silenzio mediatico, l’operato di magistrati bravissimi che sono i depositari dei cambiamenti in corso. Siamo davanti ad una realtà dove le varie forme di criminalità sono ultramoderne e l’unica rete che riesce ad afferrare dei brandelli che lasciano trasparire questo cambiamento sono le inchieste della magistratura.
Tu hai scritto che c’è un’altra importante mutazione da cogliere ed è la presenza delle cosiddette “mafie straniere”, che vanno ad affiancarsi alle tradizionali “mafie italiane”. Le nuove mafie si sono specializzate nel campo delle nuove schiavitù. E fanno quel lavoro sporco che i mafiosi italiani non vogliono fare più. Se la magistratura sta contrastando efficacemente questi nuovi cartelli mafiosi di recentissima costituzione, nell’era del “crimine globale” quali responsabilità vanno attribuite alla politica?
Restando su un piano di critica culturale, io credo che il principale e colpevole ritardo della politica sia quello di non stare al passo coi tempi. Il problema non è tanto quello di inviare plotoni dell’esercito, ma di capire se ci sono cambiamenti che avvengono all’interno del territorio. Ad esempio tutta la querelle sulla questione dei rumeni e dei lavavetri mostrava che la politica è profondamente ignorante rispetto a quel sapere giudiziario di cui parlavamo prima. Non è il sapere di Foucault o della Scuola di Francoforte, è semplicemente il sapere di chi si trova di fronte alla realtà. E su questo il ritardo culturale, conoscitivo, interpretativo della politica è abbastanza forte.
Tu hai detto che “a nessuno interessa fare della lotta al grande crimine il tema all’ordine del giorno, perché quel crimine – la riduzione in schiavitù delle prostitute o dei braccianti, il traffico di coca – serve come il pane alla vita di molti”. E hai aggiunto che “qualora però si decidesse di riflettere seriamente sulle nuove mafie (e non sui disadattati o sui lavavetri) ci si accorgerebbe che le espulsioni non servono”. Lo spauracchio delle espulsioni si rivolge non contro chi delinque, ma contro chi potrebbe delinquere, ovvero contro i poveri cristi, che se hanno qualche rapporto con il grande crimine è perché lo subiscono nel più feroce dei modi. Il ddl Amato-Ferrero tiene conto di questo problema che tu sollevi di astenersi dalla tentazione demagogica delle espulsioni, anche per favorire una migliore attività investigativa e combattere alla radice le nuove mafie?
Per quanto riguarda il ddl Amato-Ferrero, voglio dire che si poteva arrivare più rapidamente ad una riforma della Bossi-Fini. Comprendo benissimo che quella legge non poteva essere modificata ricorrendo a un decreto-legge. Sicuramente in quel ddl ci sono dei buoni principi che lasciano intravedere dei cambiamenti di rotta, pur non prevedendo il superamento dei Cpt ma solo una riduzione delle misure terribili in quegli istituti. Per quanto riguarda invece le politiche del Ministro Amato, certamente ci sono importanti successi come gli arresti eccellenti degli ultimi tempi, però complessivamente un ritardo rimane.
Il problema è che c’è una mutazione antropologica generale perché le mafie, sia italiane che straniere, sono soggette ad un processo in cui si riduce l’elemento di mafia d’ordine e invece emergono con più forza, proprio perché si entra in un’economia globalizzata, quegli elementi di imprenditorialità mafiosa. Nelle aree del Paese, come per esempio la Puglia, dove le mafie sono giovani, questo processo di non radicamento nel territorio che è direttamente proporzionale al vivere gli anfratti criminali di un’economia globalizzata, è abbastanza influente. Un esempio tangibile sono i rapporti di affari nel contrabbando di sigarette smerciate in Montenegro dalla Sacra Corona Unita con le multinazionali. Qui la mafia non è l’antistato, ma qualcosa di più complesso: è qualcosa che al servizio del clima multinazionale sfugge alle regole dello stato-nazione.
Le regioni meridionali, e la Puglia in particolare, occupano la parte alta della classifica stilata da Legambiente sulle ecomafie. Taranto, la tua città, è la capitale europea di questo inquinamento che avvelena la popolazione, in cambio di quella promessa occupazionale che oggi più che mai è illusoria, un ricatto ingiustificato.
C’è una soluzione ad una situazione che da molti viene percepita come una condanna definitiva?
Su Taranto ho una visione abbastanza pessimista. Nel momento in cui l’Ilva è stata privatizzata il potere di ricatto del padrone nei confronti di un’intera comunità è stato enorme. Ora inizia a rompersi quel consenso perché i casi di tumore aumentano anche nelle famiglie che abitano nei quartieri non immediatamente prospicienti alla fabbrica. C’è un movimento dal basso che è nato spontaneamente al di fuori dei gruppi tradizionali dell’associazionismo ed è un dato molto importante. Nonostante tutto questo, lì c’è un problema di debolezza atavica e, a mio avviso, talmente radicata da essere irrisolvibile, della politica, anche locale, nel risolvere con
cretamente la questione. E’ chiaro che di fronte a una fabbrica tanto potente che viene privatizzata la controparte giusta non è il comune o la regione, ma dovrebbe essere lo Stato. Un po’ come avviene nelle vertenze alla Fiat dove è il Governo ad intervenire direttamente. In una realtà come Taranto è chiaro che l’inquinamento e la cattiva politica locale siano due mostri che si alimentano a vicenda.
Fabio Dell’Olio
Alessandro Leogrande, nato a Taranto, vice-direttore del mensile “Lo Straniero”, ha collaborato anche con Radio Popolare e con Le Monde Diplomatique. Ha pubblicato per “L’Ancora del Mediterraneo” , tra gli altri, i libri “Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali” (2003) e “Nel paese del vicerè. L’Italia tra pace e guerra” (2006).
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