Cuffaro e i padrini
La prima domanda di un giornalista normale sarebbe stata: «Presidente Salvatore Cuffaro, dunque si sente turbato dalla condanna a cinque anni di reclusione e di interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver favorito delinquenti mafiosi del calibro di Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Domenico Miceli e Vincenzo Greco, nonchè del suo coimputato l’imprenditore Michele Aiello (prestanome di Bernardo Provenzano) – al quale ha fatto fare affari per miliardi a danno del sistema sanitario regionale siciliano e che è stato insieme a lei, presidente, appena condannato per mafia a ben quattordici anni di reclusione?». E invece no, la prima domanda del giornalista-devoto (ovviamente del telegiornale regionale che paghiamo con il canone) è stata: «Presidente, dunque, si sente sollevato?». E certo che si sente sollevato Totò Cuffaro visto che i giudici lo hanno condannato per favoreggiamento di una miriade di mafiosi, ma non dell’associazione mafiosa nel suo complesso e così con queste credenziali di rigore morale potrà continuare ad amministrare la regione di insediamento di Cosa nostra.
Misteri del manuale di logica utilizzato dai giudici: come se Guttadauro e Aiello, tanto per parlare dei due principali beneficiati delle «soffiate» di Cuffaro, fossero, in rapporto a Cosa nostra, dei dipendenti con contratto a termine o a progetto e non dei boss che gestivano (e gestiscono) gli affari e le sorti di tutta l’organizzazione, due potenti regolatori del sistema di potere della mafia siciliana. Il controllo del territorio da parte di Guttadauro e i proventi delle estorsioni beneficiano solo lui? Le immense ricchezze accumulate da Aiello anche per conto di Provenzano vanno incamerate solo da loro? Sarebbe fantamafia, purtroppo si è convertita in fantagiusizia.
Non meno inquietante di quello giornalistico e giudiziario è il risvolto politico-istituzionale, con un centrodestra che mostra ancora una volta un radicato disprezzo per il rispetto delle regole della corretta e trasparente amministrazione della cosa pubblica quando si tratta di suoi rappresentanti: dagli affari di Berlusconi a quelli di Cuffaro, tutto è normale e giustificabile, niente è illecito o, quantomeno, eticamente riprovevole: quando si additano gli scandali invocano le prove e quando queste arrivano gridano alla persecuzione giudiziaria.
È, comunque, sul grande problema dell’etica politica che questo paese si è impantanato – a destra ma anche a sinistra – e si è allontanato dagli altri paesi ai quali pur bisognerebbe fare riferimento date le affinità di gestione delle istituzioni. Certo, ci sono altre «affinità» per le quali la globalizzazione neoliberista ci avvicina agli altri paesi: lo sfruttamento del lavoro e la precarizzazione, la montante xenofobia, ma nell’etica nella gestione della cosa pubblica alcuni valori, per ora, sono ancora tenuti fermi. Possiamo immaginare che in Francia o in Inghilterra un amministratore pubblico, condannato ad una sì rilevante pena per un reato infamante come il favoreggiamento di noti boss della malavita, resti un minuto al suo posto? Lì non si attenderebbe nemmeno l’esito del processo mentre da noi non basta nemmeno una condanna.
Il caso Cuffaro, dal suo insorgere, avrebbe dovuto determinare la rimozione del governatore essendo stato accertato – senza dubbio alcuno – che questi, in un incontro segreto con Aiello, aveva concordato un prezziario truffaldino di rimborsi sanitari con un rilevante danno per le casse regionali, rimborsi ridotti sino al 50% dopo che la gestione dell’impero sanitario di Aiello era passata ad un amministratore giudiziario. Cuffaro, invece, è ancora là, fiero della condanna e delle solidarietà incondizionate.
In tempo di emergenza immondizia il fatto, ormai, non ci stupisce ma certo ci indigna, anche se l’indignazione, di per sé, fino ad ora non ha mai migliorato lo stato delle cose.
( IL MANIFESTO DOMENICA 20 GENNAIO 2008)
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