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Pippo Fava, il ricordo, la lotta

Di Pino Finocchiaro il . Dai territori, Sicilia

“Se Giuseppe Fava dovesse descrivere questa città, oggi, tornerebbe
a parlare di ‘comitati d’affari’”. Claudio Fava è lapidario nel suo
intervento al dibattito col quale si celebra a Catania il
ventiquattresimo anniversario dall’uccisione del padre, il direttore
dei Siciliani, Pippo Fava. E’ l’occasione per premiare l’impegno
antimafia di Roberto Morrione, l’ex direttore di Rai News 24 ed attuale
presidente di Libera Informazione. Il direttore Rai che ha avuto il
coraggio civile di mandare in onda l’ultima intervista di Paolo
Borsellino prima che venisse ucciso nell’attentato di via D’Amelio.
Un’intervista che parlava degli affari di mafia, degli affari che Cosa
Nostra intrecciava con politici e imprese, non solo siciliani. Comitati
d’affari, insomma.

Il premio è l’occasione per parlare di Enzo
Biagi che tenne a battesimo la quarantennale carriera in Rai di
Morrione e degli editti bulgari che anche in Sicilia hanno cancellato
intere redazioni come quella di Telecolor. Cambiano i nomi ma sempre di
grandi editori si tratta. Berlusconi a Roma, Ciancio a Catania.
Ed
è Roberto Morrione ad indicare come pietra dello scandalo che qui a
Catania, nella grande rotativa  di Mario Ciancio, si stampi l’edizione
palermitana di Repubblica senza che venga diffusa nelle edicole della
provincia etnea. Bisogna andare in provincia di Messina o Enna per
leggere le notizie sulla politica regionale del governatore Cuffaro e
dei suoi oppositori, A Catania devi accontentarti dell’edizione
nazionale del quotidiano progressista romano. Tutto per non toccare gli
equilibri dell’editore imprenditore.

Claudio Fava, eurodeputato e
cronista, quando parla dei nuovi comitati non indica il vuoto, fa nomi
e cognomi dei nuovi cavalieri, Ennio Virlinzi e Mario Cancio. Degli
interessi editoriali che si confondono e si intersecano con quelli
immobiliari e imprenditoriali. Di un quotidiano, la Sicilia, che si fa
garante del silenzio e su una procura che di quel silenzio s’ammanta.
Un connubio tra quotidiano sonnacchioso e procura distratta che viene
suggellato dagli editoriali di fuoco che sparano ad alzo zero contro un
Consiglio superiore della Magistratura che vorrebbe scuotere la procura
etnea inviando un capo che non ha mai fatto servizio a Catania e che
potrebbe dare impulso alle inchieste su mafia, politica e affari come
ha dimostrato di saper fare a Caltanissetta.

Ed è qui presente,
coi suoi immancabili foglietti fitti di fatti documentati, la figura
canuta e severa di Titta Scidà, presidente emerito del tribunale dei
minori, l’uomo che per decenni, incessante, tuonò contro il patto
scellerato tra mafia, politica e affari che riempiva le sue aule di
“carusiddi” per lo più vittime incolpevoli di degrado sociale e
deprivazione culturale. Un patto scellerato che trita diritti e
dignità. Contro il quale pochi reggono ritti di schiena senza
spezzarsi.

A celebrare questo quasi mezzo secolo da quando, in una
fredda sera di gennaio, ci strapparono il “direttore” e un pezzo
cospicuo di speranza, c’è anche il presidente di Confindustria Sicilia,
Ivan Lo Bello, quello della svolta, del no a chi paga il pizzo. Con lui
è la Sicilia dei Siciliani che vogliono farla finita coi Gattopardi e
col Gattopardismo. Lo Bello parla dei mille fuochi di speranza che si
accendono nell’isola. Di come pochi uomini possano cambiare le cose.
Non fa nomi, ma il cronista può aggiungerli. Lo Bello parla della Gela
del sindaco manager e comunista Rosario Crocetta, dove le società in
odore di mafia vengono cacciate dalla porta ma non rientrano più dalla
finestra perché sull’uscio trovano i sostituti del procuratore Di
Natale che avviano le indagini e sospendono gli appalti anche in altre
amministrazioni. Sarà per questo che Di Natale non va bene alla guida
della procura catanese?

Ivan Lo Bello, sottolinea
l’incompatibilità tra pagare il pizzo e l’appartenenza alla
confindustria e comunque ad una logica di libero mercato. Spirito
pratico, il presidente di Sicindustria, auspica per chi paga il pizzo
non fumosi e lunghi processi penali ma sanzioni amministrative certe ed
immediate che colpiscano gli interessi economici di chi si arricchisce
nel connubio.

Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di
Libera, il prete antimafia, tuona contro la difficoltà di confiscare e
far rivivere i beni accumulati dalle mafie. Don Luigi denuncia gli
incessanti tentativi di infiltrazione mafiosa nei processi di
produzione del frutto delle terre confiscate ai boss. Dei giornali e
giornalisti al servizio di interessi criminali. Delle intimidazioni che
impediscono in Calabria di usufruire dei beni confiscati alla
‘ndrangheta. Ma don Luigi non molla e chiude con le parole di Pippo
Fava: “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”

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