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Mafia, quel tesoro dei boss dimenticato dallo Stato

Alberto Custodero il . Rassegne

di Alberto Custodero

Si può perdere la lotta alla mafia anche per burocrazia, inefficienza, inadeguatezza della macchina dello Stato. Succede da anni, e succede tutti i giorni, se si guarda ai patrimoni sequestrati ai boss mafiosi e mai entrati in possesso del Demanio. Sentenze dello Stato disattese, da un lato, rendite e benefici lasciati in possesso dei clan, dall’altro. Cioè soldi, finanziamenti e risorse di cui la mafia gode alla luce del sole. Anzi, all’ombra della burocrazia.

A Pollena Trocchia, la cittadina in provincia di Napoli che Totò usava come metafora per definire un posto sperduto, una palazzina di 27 appartamenti è stata confiscata esattamente diciassette anni fa, nel novembre del 1990, al vecchio boss della camorra Giacomo Terracciano. Ma in tutto questo tempo lo Stato non ha saputo diventarne proprietario. E l’immobile, che vale cinque milioni e mezzo di euro, ha continuato a rendere ingenti profitti ai familiari del capoclan camorrista, che, come se niente fosse, affittano ancora oggi gli alloggi, facendosi beffa dell’Agenzia del Demanio – che li gestisce per conto dello Stato – e degli amministratori giudiziari.

A Bari, una palazzina in piazza San Pietro, nel cuore della città vecchia che s’affaccia sul porto, è stata sequestrata dieci anni fa e poi confiscata definitivamente nel 2000 ai Capriati, uno dei clan che con gli Strisciuglio e i Manzari si contende il controllo della città. In quei 14 appartamenti, però, in questi sette anni hanno continuato a vivere i parenti del boss Sabino Capriati, cinquanta persone – fra loro donne e bambini alcuni dei quali estranei a attività illecite – alle quali ora il comune ha notificato un provvedimento di sgombero. Termine ultimo dello sfratto, il 25 novembre. Cioè dopodomani. Ma il sindaco barese, Michele Emiliano, neo segretario regionale del partito Democratico – temendo il peggio nel fare uso della forza pubblica per convincere quegli inquilini scomodi ad andarsene – con un atto d’umanità potrebbe concedere una proroga fino a gennaio, per non buttare in mezzo alla strada i parenti del boss proprio sotto natale.

Tutto l’imbarazzo del primo cittadino barese, ex pm della Direzione distrettuale antimafia, è emerso quando, un paio di mesi fa, l’Agenzia del Demanio gli ha lasciato in eredità, forse troppo frettolosamente, quei beni confiscati, ma ancora occupati. Allora, Emiliano si sentì in dovere di rivolgere “un pensiero particolare a quelle famiglie, invitandole a pensare che non è l’infamia della giustizia a punirle e colpirle, bensì quella dell’attività dei loro familiari”.

Ma nel viaggio nel mondo dei patrimoni sequestrati ai boss, è a Pollena Trocchia – dove fu uccisa in un agguato perfino la figlia di 2 anni di un boss – che ci si imbatte nel caso più scandaloso. L’immobile sequestrato nel 1990 al boss Giacomo Terracciano – che da 17 anni frutta ancora utili al fratello Luigi – rappresenta il simbolo del fallimento della lotta dello Stato contro le ricchezze della mafia. Fa capire soprattutto l’inadeguatezza dell’Agenzia del Demanio a gestire quei patrimoni confiscati, visto che a tutt’oggi non è riuscita a entrarne pienamente in possesso. E visto che da tre anni non si preoccupa di inviare più, chissà perché, neppure l’amministratore giudiziario a riscuotere dai condomini parte degli affitti.

Questo scandalo spiega meglio di qualsiasi altro esempio perché sia stata richiesta dai questori del Sud e dalla commissione parlamentare Antimafia l’istituzione di un’Agenzia nazionale ad hoc per la gestione delle confische.

E perché sia urgente la riforma parlamentare – prevista in un capitolo del “pacchetto sicurezza” del governo – della normativa sul sequestro dei beni dei boss mafiosi che sempre di più, per sfuggire ai sequestri, ricorrono a prestanome e investono nei paradisi fiscali esteri.

Ma piazza San Pietro a Bari, e Pollena Trocchia nel Napoletano non sono certo casi isolati. Lucia Rea, dirigente Aree politiche per la sicurezza della Provincia di Napoli, parla addirittura di un vero “museo dei beni confiscati: centinaia di mega ville, terreni, aziende, natanti, un tempo di proprietà di vecchi capi mafia, oggi per la maggior parte beni senza valore, diroccati, distrutti dal tempo, dalla burocrazia, e dagli atti vandalici degli ex proprietari”. Fra questi spicca il caso dell’ex fortino del boss Francesco Rea in quel di Giugliano, in Campania. Si tratta di una struttura di 33 mila metri quadri (la villa del capo clan 5 mila metri quadri, intorno i locali di una ex concessionaria Mercedes e le case degli affiliati), confiscata il 26 gennaio del 1998 e passata al comune l’11 marzo del 2004. Prima di andarsene, amici e parenti del vecchio proprietario che vi avevano albergato abusivamente per sei anni – in tutto 30 nuclei familiari – hanno distrutto e saccheggiato tutto, portandosi via perfino le pareti e gli infissi. Ora su quel cumulo di macerie l’ente pubblico vuole costruirci il tribunale di Giugliano, ma – paradossalmente – per ristrutturare l’ex dimora del boss ci vogliono 30 milioni di euro. Per costruire gli uffici giudiziari ex novo, meno della metà.
Che lo stato non faccia affari, acquisendo la proprietà dei beni della mafia, del resto, è un fatto noto.

Centinaia di immobili sequestrati alle famiglie malavitose non possono diventare di proprietà pubblica perché gravati da ipoteche da 200 a 500 mila euro a edificio vantate da banche che in passato, con quelle garanzie immobiliari, hanno concesso linee di credito ai boss o ai loro familiari. A puntare l’indice a tal proposito contro il sistema bancario è stato il questore di Palermo, Giuseppe Caruso. Alla commissione Antimafia, che sul problema dei patrimoni delle mafie sta per approvare una relazione, ha dichiarato: “Le banche, spesso disponibili nei confronti dei mafiosi, chiedono talvolta all’amministratore giudiziario, cioè allo Stato, garanzie più onerose di quelle chieste all’imprenditore mafioso”. “Nel corso delle indagini – ha ribadito il questore Caruso – sono state rinvenute concessioni di prestiti e fideiussioni decretate per conoscenze personali, ed ipoteche iscritte sui beni immobili già ipotecati 3 o 4 volte come garanzia reale per centinaia di migliaia di euro. Posso fare i nomi dei procedimenti in corso a Palermo: Santomauro, Lo Verde, Nangano, Sansone e altri”.

Non ci sono solo ombre, nel viaggio nel mondo delle confische patrimoniali. Anche luci: basti pensare che in seguito all’arresto, nell’ultimo anno, dei boss siciliani Nino Rotolo e Giovanni Carmelo Cangemi, è scattato il sequestro preventivo su un patrimonio di 45 milioni di euro. Nel 2003 sono stati sequestrati 3 milioni e mezzo di beni a Salvatore Riina, 9 milioni e mezzo a Bernardo Provenzano. E sono state fatte proposte di sequestro per 102 milioni di euro fra case, ville e terreni e società edili alle famiglie mafiose Gottuso e Cusimano di San Lorenzo. Ma quanti di quei beni entreranno nelle disponibilità dello stato? E, soprattutto, quando? La Sicilia come la Puglia. Altro esempio. A Bari, c’è un appartamento confiscato alla famiglia Catacchio, in via Grimaldi 15, di 200 metri quadri.

Peccato che una banca vanti un’ipoteca per 115 mila euro, e il curatore fallimentare della Finturismo Srl, che ha costruito l’immobile, faccia altrettanto per 200 mila euro. Morale, il comune, per ereditare – in teoria gratis – quell’appartamento che ha un valore di mercato di 200 mila euro, dovrebbe sborsarne 300 mila. Se la burocrazia e la “criticità normativa” rendono molto spesso vana e impervia l’aggressione dello stato ai patrimoni della criminalità organizzata, il questore di Napoli, Oscar Fiorolli, lancia un altro tipo di allarme. E denuncia i “limiti culturali” del Settentrione, una sorta di nota stonata in quella parte dell’Italia sempre pronta ad accusare il Sud di essere colluso con le mafie.

Ecco il j’accuse di Fiorolli alla commissione Antimafia: “A Napoli abbiamo superato il limite culturale insito nella confisca dei patrimoni della malavita. Nel Nord, invece, questo strumento è poco utilizzato perché credo che là ci sia un limite culturale non solo nostro, ma probabilmente anche dell’autorità giudiziaria. Sarebbe molto importante ricorrervi anche in quella parte del Paese”.

Le conclusioni dell’inchiesta sulle confische condotta dalla commissione Antimafia presieduta da Francesco Forgione – ancora segrete – sono per certi versi scioccanti. “Repubblica” ne anticipa i contenuti principali. La prima criticità è proprio la gestione dell’Agenzia del Demanio, che viene letteralmente bocciata. “Non appare adeguato – spiega Forgione – fare rientrare la gestione e la destinazione dei beni confiscati alle mafie nell’alveo delle competenze generali dell’Agenzia del Demanio”. Ed ecco alcuni motivi. “Non è stato possibile – aggiunge il presidente dell’Antimafia – conoscere i costi della gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”.

E inoltre: “Il procedimento di confisca, destinazione e assegnazione giunge a dare frutti concreti su meno del 10 per cento degli immobili”. Ma le responsabilità accertate dalla Commissione Antimafia sono ben ripartite, alcune riguardano, a sorpresa, la stessa Giustizia. Ancora il presidente Antimafia: “Su 123 tribunali in tutta Italia, ben 65 non hanno instaurato alcun procedimento di prevenzione patrimoniale fra il 2004 e il 2006. Tra questi, i tribunali di Crotone, Salerno e Siracusa. Nell’ultimo triennio Cosenza, Catania e Trapani hanno inserito una pratica, Catanzaro due. Mentre Palermo è passata da 32 procedimenti patrimoniali nel 2003, a soli 4 negli ultimi tre anni”. In totale, in Italia, si è passati da 233 procedimenti del 2001 censiti dal ministero della Giustizia, a 28 nel 2006. Per lo Stato, una sconfitta.

La Repubblica
(23 novembre 2007)

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