L’antimafia al veleno
di Alessio Magro
Il ricordo commosso e i rancori. Le contese politiche e i retroscena dell’inchiesta. I vuoti d’organico nelle procure e i personalismi dell’antimafia di professione. A due anni dall’assassinio, il 16 ottobre 2005, il nome di Franco Fortugno non suscita più sentimenti d’unità. Con le piazze di Locri sempre più deserte. E un inquietante suicidio, quello del pentito Bruno Piccolo, ad alimentare i misteri e i veleni.
Ma cos’è cambiato a Locri dall’omicidio Fortugno, l’11 settembre della Calabria e delle ‘ndrine rivoltose? Enrico Fierro, inviato dell’Unità, negli ultimi due anni cronista dei fatti di Calabria, non si abbandona alla retorica:
« La città è cambiata poco. La gente comune ha la stessa indifferenza dei giorni successivi al 16 ottobre. Ci fu una reazione generale, Le grandi manifestazioni non videro la partecipazione della città».
Per quale motivo?
« La Calabria è avvelenata dai sospetti, dalle dicerie, dai rancori, dalle invidie, da quel modo di fare in virtù del quale anche essere ammazzati è un problema. Perché anche sui morti si fanno pettegolezzi, si avanzano dubbi. E Mario Congiusta, ad esempio, è costretto a spiegare perché è stato ammazzato il figlio Gianluca, a giustificare le richieste del figlio al boss. No, Gianluca era un imprenditore ed è stato ammazzato perché non voleva pagare il pizzo. Il resto conta poco. Lo stesso meccanismo scatta quando si parla di Fortugno».
E della moglie. Ma Maria Grazia Laganà siede in Parlamento, eletta nelle liste della Margherita, e candidata in quanto vedova Fortugno. Del resto, proviene da una famiglia di politici di lungo corso, e potenti. Può essere questo il motivo di un certo distacco della città?
« Per molti è come se continuasse a esercitare l’antico potere di famiglia. Ma il sale politico della Fortugno, la sua azione in commissione antimafia sono elementi di rottura rispetto all’operato dei Laganà, è una svolta. Non si tiene conto di questo, mentre prevale la strategia dei veleni. E all’operazione di avvelenamento concorre anche quella che io chiamo “l’antimafia col sangue agli occhi”. Siti internet, strane associazioni, tutti quelli che non distinguono la corruzione politica da quella mafiosa, che mettono tutti dentro un grande calderone. È un’antimafia che divide più che unire. Hanno uno slogan: tutto è mafia. Ma sappiamo bene che se tutto è mafia, come diceva Sciascia, allora nulla è mafia».
Cosa resta dei ragazzi di Locri?
« Ci sono ormai delle piccole realtà parcellizzate. Sono stati divisi dalla politica, che ha voluto mettere dei timbri, che sta creando aspirazioni per nuove carriere. Sono stati divisi anche dall’antipolitica, perché lo sberleffo e il vaffanculo alla Grillo non fanno altro che alimentare divisioni. Mentre la Calabria avrebbe bisogno di un grande movimento antimafia».
Come quello che ha scosso la Calabria negli anni 70 e che pochi ricordano. Nei suoi libri, anche lei ha voluto riannodare i fili della memoria. È una critica al presente?
«È doveroso ricordare chi è morto e chi ha sciupato una vita per affermare la legalità in Calabria, in tempi in cui la ‘ndrangheta non sopportava di essere nominata. In tempi in cui non c’erano i riflettori accesi. E anche per questo il potere ha vinto, chi ha combattuto è stato isolato o ucciso. Ecco, la lotta alla ‘ndrangheta è una lotta di lunghissimo periodo. Viene dal passato, dal movimento antimafia, dall’azione quotidiana, dalla militanza. Oggi c’è chi pensa che un blog possa fare un leader. Non è così. I contatti virtuali sono un’illusione. È la gente in carne ed ossa a creare il consenso. E un leader si misura dalle coscienze che riesce a toccare».
Ma se è vero quel che dice, nel dopo-Fortugno i media nazionali hanno creato e alimentato l’illusione. Sono stati scelti come unico interlocutore dei ragazzi, con libertà di parola e giudizio. E anche Fierro e l’Unità hanno cavalcato l’onda.
« Abbiamo sbagliato. Anch’io ho sbagliato. Abbiamo scelto la strada più facile. Il volto più bello. Chi parlava meglio. Li abbiamo costruiti come leader, perdendo di vista i tanti soggetti che fanno delle cose, che costruiscono altre alterità rispetto alla Calabria “normale”. Costruiamo mostri e non riusciamo più a governarli. Mi vengono in mente quelli che Corrado Stajano chiamava i vitellastri. Sarebbe interessante vedere che fine faranno tra dieci o vent’anni quelli che abbiamo eletto come protagonisti. E che fine hanno fatto e faranno gli altri, quelli che continuano a impegnarsi, magari in un partito, in un sindacato. Ma sono uomini che non fanno notizia».
Il caso Fortugno è anche un caso giudiziario. Veleni, magistrati trasferiti, polemiche. E colpi di scena.
« A due anni esatti dalla morte di Fortugno piomba su Locri la notizia del suicidio di Bruno Piccolo, pentito della cosca Cordì. Con il rispetto dovuto, l’utilità della sua morte è strepitosa: la difesa non ha fatto altro che contestare le sue testimonianze, sostenendo si trattasse di dichiarazioni di un soggetto instabile, un matto. Quel che mi chiedo, però, è per quale motivo Piccolo abbia deciso di suicidarsi il 15 ottobre, un giorno prima della ricorrenza, per una delusione amorosa maturata tre giorni prima. Mi chiedo ancora perché Piccolo sia stato lasciato solo, nonostante avesse già tentato di togliersi la vita. Per quale motivo vivesse abbandonato a se stesso».
Sono interrogativi inquietanti. Crede ci siano responsabilità?
« Il servizio centrale di protezione sostiene che l’assistenza psicologica viene fornita a richiesta. Ma il punto è che la morte di Piccolo pone un interrogativo fondamentale sulla gestione dei pentiti. Dei 4800 sottoposti a protezione, solo 86 sono calabresi. Sono ‘ndranghetisti di medio-piccolo calibro. Restano soli, perché la famiglia non li segue, come avviene invece per mafiosi e camorristi. Piccolo è rimasto solo, sapeva che non sarebbe più tornato a Locri. Non l’ha sopportato. Ma se vogliamo nuovi pentiti, qualcosa dovrà cambiare».
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