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Acque al cromo VI

Laura Sudiro il . Dai territori

di Laura Sudiro
Sul cromo esavalente che ha avvelenato il territorio fra Tezze sul Brenta, comune in provincia di Vicenza, e l’alta Padovana, molto è stato detto. Ancor più è stato scritto.

Ma se si eccettua l’attenzione riservatagli dalla trasmissione di Raitre “Report” di Milena Gabanelli e da un servizio apparso sul settimanale Panorama, al caso in questione è stata negata la rilevanza nazionale che pur avrebbe meritato.

Rimangono gli articoli firmati sulle pagine, interne per lo più, dei giornali locali, meno spesso regionali.

Rimangono le testimonianze delle persone coinvolte.

Ma ciò che resta, soprattutto, sono pile e pile di fascicoli colmi di documenti, ordinanze, atti processuali, relazioni peritali, a scadenzare i ritmi singhiozzanti della nostra giustizia, a tentare di far luce su una storia tanto intricata nell’accertamento delle responsabilità dei suoi protagonisti, quanto lineare nel suo ordito di fondo.

La storia di un inquinamento sistematico e tragicamente metodico che si trascina da trent’anni, di cui alcuni sapevano, i più sospettavano, e che balzava, con evidenza molesta, agli occhi anche di chi si era sforzato ostinatamente di non vedere: per paura o solidarietà, per vigliaccheria o compiacenza o altro.

Trent’anni in cui i potentati economici sono andati a braccetto con la politica locale, in un perfetto connubio, avvallato dalla prassi e tacitamente tollerato dalle istituzioni.

Trent’anni di mafia.

Fa effetto questa parola, soprattutto se la si deve usare per descrivere quanto avvenuto e quanto avviene di questi tempi nel Veneto, fulcro del nord est produttivo, collocato al terzo posto (con 389 infrazioni, l’8,1% del totale nazionale) dopo Puglia e Campania, nella classifica stilata da Legambiente nel rapporto Ecomafia 2006.

Forse allora non sorprende che sia dovuto trascorrere più di un quarto di secolo perché ciò che era stato prima ingegnosamente celato, poi dolosamente insabbiato, emergesse in tutta la sua vergognosa gravità.

E’ stato necessario forzare il muro di omertà costruito in tanti anni e che ricatti occupazionali, timori di ritorsioni e sordidi compromessi uniti ad un’ignoranza diffusa, hanno contribuito a consolidare.

Per farlo ci è voluta l’ostinata determinazione di una donna, Gabriella Bragagnolo in Milani, 55 anni, infermiera in pensione, l’unica ad aver avuto il coraggio di urlare ciò che altri semplicemente sussurravano, denunciando un disastro ambientale che si protraeva indisturbato da decenni.

E ci è voluto il tenace e prezioso operato della Polizia Giudiziaria di Padova, dei tecnici dell’Arpav di Bassano (VI) e del Pm Renza Cescon per arrivare alfine alla sentenza pronunciata dal Giudice Paola Cameran, il 25 ottobre scorso, che ha decretato la fine di un processo durato più di tre anni, e iniziato proprio grazie e sulla base delle segnalazioni della famiglia Milani.

COME INIZIO’

L’inquinamento da cromo esavalente emerge ufficialmente nel novembre del 2001, quando la famiglia Milani si trasferisce nella nuova residenza di Tezze sul Brenta (VI)

“Siamo scappati da una situazione divenuta insostenibile da quando, vicino alla casa di Santa Croce Bigolina (PD) che abbiamo venduto per trasferirci a Tezze, erano stati costruiti capannoni industriali da cui provenivano rumori di lavorazione molesti e incessanti”, spiega Agnese, la più grande delle due figlie.

Non potevano certo immaginare, i Milani, che nella bella villetta appena acquistata a Stroppari, vicino a Tezze, avrebbero trovato ben di peggio.

“Eravamo contenti”, interviene la signora Gabriella, “anche se non avevamo alcuna conoscenza in paese e ci trovavamo inseriti in una realtà del tutto nuova”.

“I problemi”, continua, “ sono iniziati quando ci siamo accorti di piccoli fastidi causati dal contatto con l’acqua di casa. Dopo la doccia ad esempio, tutti e quattro accusavamo gli stessi sintomi: arrossamenti cutanei, prurito, mal di testa, perdita dei capelli”.

Passano quattro mesi e la situazione non accenna a migliorare. Anzi.

“Contattai personalmente un laboratorio perché effettuasse delle analisi sull’acqua”, racconta Gabriella.

I risultati di questi primi esami vengono poi confermati dagli accertamenti eseguiti in seguito dall’Arpav, Agenzia veneta per l’ambiente, sull’acqua del pozzo ubicato nel giardino della villetta e destinato ai piccoli usi domestici.

L’esito è tutt’altro che confortante: una concentrazione altissima di cromo esavalente, infinitamente superiore a quella fissata dai limiti di legge: 170 microgrammi di cromo VI contro i 50 di cromo totale (cromo, cromo III,cromo VI) consentiti.

Gabriella Bragagnolo ricorda quel periodo con la rabbia dell’impotenza: “Fummo informati sulla natura e l’entità dei rischi causati da una continuata esposizione al cromo VI, io stessa mi documentai. Assunto per inalazione il cromo esavalente è mutageno e cancerogeno. Per 5 mesi io e la mia famiglia l’abbiamo addirittura ingerito”

“Come se non bastasse”, continua la Signora Bragagnolo, “nel corso di controlli successivi, l’Arpav rilevò una concentrazione sempre maggiore con picchi anche di 600 microgrammi”.

La denuncia della famiglia Milani è immediata e persegue un duplice scopo: uno è diretto a informare i massimi organi dello stato, dal Ministero della Salute al Presidente della Repubblica; l’altra segue la via formale della denuncia all’autorità giudiziaria.

Quest’ultima parte il 21 marzo del 2002.

Le indagini dell’Arpav, intanto, si allargano al territorio circostante e chiariscono che il problema non riguarda soltanto la famiglia Milani, ma coinvolge tutti i cittadini.

Si scopre che l’inquinamento da cromo VI interessa 14 chilometri quadrati di falda, vengono individuati altri pozzi inquinati in comuni vicini, tra Cittadella e Fontaniva (PD) e si risale alla fonte unica di quel veleno: la Galvanica PM di Via Tre Case, un’industria di cromatura che dall’abitazione dei Milani dista appena un chilometro e mezzo.

La Procura di Padova apre un’inchiesta che si conclude con il rinvio a giudizio del titolare dell’azienda e suo legale rappresentante, Paolo Zampierin.

Il processo, celebrato presso il Tribunale di Cittadella, inizia il 16 aprile del 2003 e vede Zampierin come unico imputato del reato di avvelenamento di acque potabili.

LA SENTENZA

La sentenza arriva dopo tre anni e mezzo, il 25 ottobre scorso, al termine di 33 lunghe udienze.

Paolo Zampierin è riconosciuto colpevole di avvelenamento colposo commesso fino al 24 dicembre 2003 e condannato a 2 anni e 6 mesi di reclusione ed al pagamento di tutti i danni cagionati con una provvisionale di 2 milioni e 250 mila euro, oltre alle spese di costituzione di parte civile ed alle spese processuali.

Una sentenza sicuramente significativa perché, come ha avuto modo di sottolineare il ministro dell’ambiente Pecoraro Scanio, “viene riconosciuto l’avvelenamento e non semplicemente l’inquinamento”.

Peccato che la pena alla reclusione sia cancellata dall’indulto e che il risarcimento del danno liquidato dal giudice Cameran sarà oltremodo difficile da ottenere, avendo la Pm Galvanica dichiarato fallimento nel dicembre del 2003.

Non resta che condividere l’ottimismo del direttore dell’Arpav di Vicenza, Bassano e Thiene, Alessandro Bizzotto che fa notare come, mentre il reato penale, a distanza di anni, si prescrive, “la responsabilità civile non invecchia mai».

TRENT’ANNI DI SILENZI

Nei tre anni e mezzo trascorsi dall’inizio del processo, gli eventi si sono succeduti con ritmo incalzante.

I destini individuali si sono incrociati con quelli di un’intera comunità, il fenomeno ha raggiunto dimensioni imponenti, ha costretto a riflettere su un inquinamento di proporzioni assai ampie e complesso nelle sue manifestazioni, su un disastro ambientale causato da pochi ma che ricade, senza sconti, su tutti i cittadini.

Il processo di Cittadella ha svelato scomodi retroscena, puntando il dito contro una corruzione dilagante, che affonda le sue radici negli anni ’70.

Già allora la cronaca giudiziaria si era occupata dell’inquinamento delle acque potabili, nella zona a cavallo tra la provincia di Vicenza e quella di Padova.

Sappiamo così che le prime segnalazioni in proposito risalgono alla fine di quegli anni e che rimasero inascoltate.

Sappiamo che in località Battistei, a quattro chilometri da Cittadella, i prelievi periodici dell’ufficio provinciale di igiene indicavano in quattro pozzi la presenza di cromo VI in misura maggiore al limite di tollerabilità e che il battaglione Pordoi e Valles del 184esimo gruppo artiglieria Filottrano, era stato incaricato di rifornire di acqua potabile le località inquinate, per due volte al giorno.

Sappiamo che l’allora pretore di Cittadella affidò l’indagine ai carabinieri e fece partire 6 comunicazioni giudiziarie, gli attuali avvisi di garanzia: tre, per omissioni di atti d’ufficio e avvelenamento colposo di acque destinate all’alimentazione umana, indirizzate rispettivamente al medico provinciale di Vicenza, all’ufficiale sanitario di Tezze sul Brenta e al sindaco di Tezze, che all’epoca era Rocco Battistella; le rimanenti, per avvelenamento di acque e scarico di rifiuti industriali in acque pubbliche senza autorizzazione, spedite a tre aziende operanti sul territorio.

Ma tali indagini caddero inspiegabilmente nel vuoto, e nessuno dei presunti colpevoli pagò.

Forse è interessante rilevare che una delle aziende in questione era proprio la galvanica di via Tre case, solo che allora si chiamava Tricom Srl ed era guidata da Adriano Sgarbossa.

Se si pensa che il direttore del reparto cromatura della ditta era anche il primo cittadino di Tezze e lo è rimasto per venticinque anni, risultano spiegati alcuni provvedimenti comunali atti a favorire certe attività della Tricom, come ad esempio lo scarico dei reflui della lavorazione nella roggia Brotta.

Rocco Battistella (oggi Assessore alla Provincia di Vicenza per la caccia, la pesca e gli affari legali), costituisce il tipico esempio di un conflitto di interessi talmente plateale da risultare imbarazzante, ma di cui nessuno a suo tempo sembra essersi lamentato.

Andava bene così.

Fortunato o forse molto protetto, sicuramente molto potente.

E’questo un pensiero comune, ora.

Ed è proprio nel corso del dibattimento del processo di Cittadella instaurato contro Paolo Zampierin, che la pubblica credibilità dell’ex sindaco comincia a scricchiolare.

Chiamato come teste, le sue dichiarazioni convincono poco il giudice: viene rinviato a giudizio, per falsa testimonianza.

Non solo: dando lettura della sentenza, il giudice Paola Cameran dispone la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Padova per valutare eventuali responsabilità penali a carico dello stesso Battistella e di Adriano Sgarbossa, a capo dell’attività aziendale prima dell’avvento, nel 1995, di Zampierin.

Forse dopo trent’anni sarà fatta giustizia.

Forse.

Ma gli strascichi di decenni di illeciti impuniti, di una mentalità criminale che vede nell’ambiente non un bene da proteggere, ma una comoda e capace pattumiera da sfruttare per far “schei”, di atteggiamenti meschini e poco costruttivi anche da parte della stessa cittadinanza, divisa tra chi riconosce in Gabriella Bragagnolo una sorta di eroina, soprannominandola “la Erin Brockovich italiana” e chi invece ancora l’accusa di aver rovinato la buona immagine del paese, tutto questo non è stato spazzato via da una sentenza seppur esemplare.

Non si può pretenderlo.

“Occorrerebbe un’educazione alla cura e alla salute dell’ambiente e pubblica, una cultura della bellezza che nel Veneto industrializzato dei nostri giorni non può trovare spazio.

Sono altri gli imperativi, diverse le necessità.

In nome del benessere qui si è disposti ad accettare tutto: degrado, scempi, morte”.

Sono le amare parole di Agnese Milani.

Nel 2005 alla madre è stato diagnosticato un carcinoma al seno, lei stessa da qualche tempo deve tenere sotto controllo una cisti, sempre al seno.

Il collegamento con quel veleno per mesi bevuto e inalato, appare naturale, ma non è dimostrabile.

Sicuramente figlie del cromo esavalente sono invece le margherite deformi, battezzate col nome di “pratoline mutanti”, che in primavera colorano il giardino di casa Milani.

Arriva un momento in cui l’ambiente presenta il suo conto.

Ed è un conto salatissimo.

Basti pensare che il costo totale per la bonifica dell’area inquinata si aggira intorno ai 150 milioni di euro.

Una cifra decisamente al di sopra delle possibilità del comune di Tezze sul Brenta

Mentre dalla Regione Veneto arrivano cifre irrisorie, se confrontate all’ammontare del danno, e tante promesse, ci si augura che una parte dei finanziamenti vengano erogati dalla Comunità Europea, all’attenzione del cui Parlamento il “caso cromo” è stato sottoposto nell’ottobre scorso.

Ciò che non si potrà mai risarcire sono le 19 (ad oggi) morti sospette di dipendenti ed ex dipendenti della fallita Tricom Srl, accomunate tutte da una medesima patologia: tumore polmonare.

Su di esse, nella primavera del 2006, la Procura della Repubblica di Bassano(VI), ha aperto un fascicolo.

Assai pesanti le ipotesi di reato contemplate: omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime, omissioni di difese e cautele contro gli infortuni e i disastri ambientali, violazioni delle norme di igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro.

Tra gli indagati compaiono sempre gli stessi nomi: Adriano Zampierin, responsabile del reparto di cromatura della Tricom, Adriano Sgarbossa, Rocco Battistella, Paolo Zampierin.

La prossima udienza è stata fissata il 7 febbraio 2007.

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