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Il caporalato annienta lavoratori e imprese

Gian Carlo Caselli, Francesco Gianfrotta il . Senza categoria

In tema di caporalato andrebbe soddisfatta prima di tutto l’esigenza che la politica e la società civile abbandonino le sterili logiche emergenziali.

Perché le cose cambieranno poco o niente se ci sveglieremo e ci indigneremo unicamente dopo qualche fattaccio, tipo quello orribile accaduto a Satnam Singh, il cui braccio – tranciato da una macchina – è stato “abbandonato dentro una cassetta agricola come un semplice scarto di produzione” (così Luigi Ciotti su questo giornale), mentre il corpo veniva gettato davanti alla sua abitazione e  non portato in ospedale per le cure  forse ancora possibili.

Sbaglia poi chi non vorrebbe parlare troppo di caporalato per noi danneggiare la nostra economia. Il caporalato infatti è una piaga che pregiudica i lavoratori e le imprese che hanno scelto la via della legalità e si trovano a dover concorrere con chi preferisce lucrare illecitamente sullo sfruttamento dei propri simili,

Per l’agricoltura italiana (settore tra i più colpiti) il caporalato è un danno pesante anche in termini di reputazione, capace di offuscare l’immagine di eccellenza – come qualità e distintività – che contraddistingue ovunque i nostri prodotti. È per questi motivi che l’Osservatorio sulle agromafie promosso da Coldiretti (di cui gli scriventi fanno parte) ha istituito da tempo un gruppo di lavoro sul caporalato, contando su  competenze di alto livello.

Tanto premesso, è chiaro che il caporalato non può ridursi  a “dolorosa necessità, in quanto prezzo da pagare sull’altare dello sviluppo di alcuni settori dell’economia. Difatti il  legislatore ha fatto una scelta netta a favore del contrasto allo sfruttamento lavorativo, ritenuto sostanza del più ampio fenomeno del caporalato, che da tempo le indagini dimostrano presente non solo in agricoltura, ma anche in altri settori della vita economica, e non solo al Sud, ma anche al Centro e al Nord.

Di certo la legge n. 199 del 2016, che punisce severamente l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro (per ogni lavoratore reclutato, reclusione da 1 a 6 anni e da 5 a 8 in caso di violenza o minaccia, oltre a multe salate), ha segnato una decisa svolta nel modo di affrontare una realtà che, al di là dei suoi profili penali, si caratterizza per forme indegne di un paese civile, intrecciate con i ricatti permanenti subiti dagli immigrati. Ben più numerosi di anni fa sono, oggi, investigazioni e processi: ciò  dimostra, tra l’altro, che il legislatore ha descritto i comportamenti puniti e, prima ancora, ha definito gli “indici dello sfruttamento in modo nel complesso aderente alla realtà; fornendo alle attività di indagine nuovi proficui indirizzi.

Una legge ancora migliorabile, certo: per esempio, incentivando le denunce dei lavoratori sfruttati con la prospettiva di non perdere il lavoro, come a suo tempo suggerito dall’ Osservatorio agromafie. E tuttavia ancora una volta l’esperienza conferma che la repressione non basta quando si ha a che fare con una illegalità diffusa e molto radicata.

Continuano ad essere del tutto insufficienti i controlli preventivi che servirebbero a diffondere i comportamenti legali (dai salari agli orari di lavoro) e a ridurre il numero dei processi; per non parlare delle politiche generali che potrebbero togliere l’acqua aipescecani(intervenendo sui trasporti pubblici dove mancano, e sulle abitazioni, oggi  consistenti in cubi di lamiere esposti al sole rovente). Eppure, anche in questo campo, non mancano progetti che potrebbero fare emergere il lavoro nero e favorire l’integrazione di quote importanti di immigrati irregolari, con il coinvolgimento di enti locali e Regioni e valorizzando borghi abbandonati che si trovano in molte aree del paese. L’Osservatorio agromafie (su input di Giovanni Salvi ex PG della Cassazione) e l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia (ANCI) se ne fecero promotori, raccogliendo consensi della politica, accompagnati da impegni purtroppo poi rimasti tali.

È stata da più parti  proposta una etichetta narrante”, che darebbe trasparenza alla filiera, facendo conoscere le aziende corrette. Neppure mancano strumenti attivati negli anni scorsi per monitorare il fenomeno al centro e in periferia e contrastarlo adeguatamente con sinergie tra istituzioni diverse (il “Tavolo caporalato”, istituito con legge presso il Ministero del lavoro; il Protocollo di intesa, tra i Ministri competenti e l’ANCI; la Consulta per l’attuazione di quest’ultimo). Non è noto granché della loro operatività e neppure se questa sia continuata con il mutamento della direzione politica del paese.  Mentre si polemizza sulla mancata destinazione di fondi del PNNR.

Per non parlare della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, a suo tempo pensata per garantire una sorta di certificazione di qualità, di non utilizzo di lavoro nero per le imprese, favorendo per quelle virtuose, anche attraverso le grandi reti di distribuzione, una sorta di corsia privilegiata nei rapporti con l’INPS (così il sito del Ministero dell’agricoltura).

Siamo fermi, invece, alle “solite” dichiarazioni di cordoglio o di generico impegno, o al cinismo di chi lascia che si dica che l’indiano di turno se l’è cercata. Tutti films già visti, ma non è una “damnatio Italiae” cui sia consentito rassegnarsi.

Fonte: La Stampa

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