Mannino: sono cambiate le regole, non le accuse
I tempi del processo, nel nostro Paese, sono così dilatati che ogni assoluzione va prima di tutto valutata come conclusione di un periodo troppo lungo di sofferenze, quelle che ontologicamente causa qualunque processo. Ma con il rispetto dovuto a chi abbia patito i tempi interminabili della giustizia, ci sono margini per commentare anche le assoluzioni.
Ad esempio osservando che ogni tanto ne capitano alcune – ineccepibili nella loro validità formale – che però appaiono ricollegabili, come dire, ad una sorta di “grazia ricevuta”.
Prendiamo il processo a Corrado Carnevale, già presidente della prima sezione della Cassazione, malignamente definito da qualcuno un “ammazzasentenze” (soprattutto di mafia). A Palermo il giudice viene processato per concorso esterno in associazione mafiosa: assolto in primo grado, condannato in appello, nel 2002 è assolto senza rinvio dalla Cassazione (Sezioni unite).
La prova del “contributo essenziale alla sopravvivenza e al rafforzamento di Cosa nostra” si fondava – tra l’altro – sulle precise dichiarazioni accusatorie di alcuni colleghi di Carnevale; dichiarazioni che la Cassazione ha dichiarato inutilizzabili, in quanto “il giudice penale ha l’obbligo di astenersi dal deporre in merito al processo formativo della deliberazione collegiale”.
Poco importa che in tale processo formativo si sia fatta rientrare anche una testimonianza scioccante: la convocazione da parte di Carnevale, nel proprio ufficio, di un magistrato della sua sezione, membro del collegio giudicante (di cui esso Carnevale non faceva parte) incaricato del processo per l’omicidio del capitano CC Basile; convocazione volta a perorare l’annullamento della condanna irrogata ad alcuni boss per tale omicidio; con la presenza nell’ufficio di una specie di “massaro vestito a festa”, poi uscito dalla stanza ma rimasto visibilmente a ridosso della porta a vetri restando accanto alla quale Carnevale trattava col collega il suo “problema”.
Poco importa che fior di giuristi fossero (e siano) dell’avviso che il pubblico ufficiale venuto a conoscenza di un reato ha il dovere di riferirne all’autorità giudiziaria e quindi la sua testimonianza è sempre utilizzabile. Poco importa che la stessa Cassazione lo abbia affermato, nel 2009, stabilendo che l’obbligo di denunzia che grava sul pubblico ufficiale componente di un collegio fa venir meno il vincolo del segreto. Importa solo, alla fine, che del segreto in camera di consiglio si è fatto un uso piuttosto machiavellico, trasformandolo in un’ancora di salvezza.
Parliamo ora di Calogero Mannino.
La recente assoluzione per la “trattativa” (processo ancora aperto per altri imputati, mentre Mannino ne è uscito con il rito abbreviato) viene accomunata a quella intervenuta in un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa, facendone un tutt’uno per alimentare polemiche e recriminazioni.
In realtà in questo secondo caso all’assoluzione si è arrivati – come per Carnevale – in modo singolare.
Quando il processo comincia, il concorso viene configurato in base all’orientamento giurisprudenziale della Cassazione vigente in quel momento. Senonché, annullando con rinvio la condanna inflitta a Mannino in appello, la Cassazione (Sezioni unite) modifica questa giurisprudenza. Prima era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un “ritorno” del patto in termini effettivamente e significativamente incidenti.
L’asticella del livello probatorio viene alzata in corso d’opera, come se durante una partita di calcio, nell’intervallo fra i due tempi, qualcuno decidesse che è calcio di rigore solo quando il fallo viene commesso nell’area piccola, quella del portiere…
Un meccanismo che ricorda il falso in bilancio: reato quando molti processi furono avviati, poi depenalizzato costringendo i giudici ad assolvere.
Di nuovo, poco importa che la “svolta” della Cassazione abbia suscitato varie critiche: nel senso che “fare reale applicazione del rigoroso criterio di causalità ex post canonizzato in tale pronuncia […] risulta tutt’altro che agevole […] a fronte della varietà dei casi di contiguità compiacente che si presentano nella prassi giudiziaria. Sicché, la magistratura di merito si trova di fronte all’alternativa o di rinunciare a perseguire alcuni casi di pur palese contiguità, ovvero di flessibilizzare in maniera anche surrettizia gli impegnativi criteri causali codificati dalla pronuncia Mannino” (così Giovanni Fiandaca, autorevole ed indiscutibile campione di garantismo).
Importa solo che un inaspettato “deus ex machina” ha cambiato il corso delle cose.
Fonte: Il Fatto Quotidiano 15/12/2020
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