41 bis, la Carta non è un taxi da prendere quando fa comodo
Ritorno sul tema del 41 bis: non tanto per alcune polemiche (prevedibili se non scontate) suscitate dal mio intervento dell’8 novembre, quanto piuttosto per mettere a fuoco alcuni punti essenziali.
Il principio che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” è scolpito nell’art. 27 Costituzione e vale per tutti i reclusi. Mafiosi al 41 bis compresi. Non ci piove. Negarlo sarebbe aprirsi ad uno “stato di eccezione”, ad un “diritto penale del nemico”, configurando i detenuti per “tipi d’autore“ sulla base del titolo astratto del reato commesso. Semplicemente inammissibile!
Ma per il 41 bis decisivo non è il titolo “astratto” del reato. Decisivo è un fatto assai concreto. Ed è che senza il “regime differenziato” del 41 bis, i detenuti mafiosi – grazie ad un permanente circuito di informazione, assistenza, solidarietà e comunicazione fra loro e con l’esterno – avrebbero la possibilità di decidere e programmare nuove attività criminali. In sostanza, se la mafia riesce a essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre, allora il contrasto antimafia è perso in partenza. Se invece con il 41 bis viene finalmente interrotto quel circuito perverso che rende il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio, ecco che tutto radicalmente cambia.
E attenzione, non sono ubbie di forcaioli impenitenti. Non c’è alcuna “esaltazione del carcere duro”. Si tratta di realtà – ribadisco – concrete, verificabili ad esempio con quanto documentato nel volume “Lo stato illegale” (Laterza 2020) che ho scritto con Guido Lo Forte. Là dove si riportano alcune lettere che un boss fra i più pericolosi ha fatto uscire dal carcere pur essendo sottoposto al 41 bis, all’evidenza – nel caso di specie – assai “allentato”. Lettere nelle quali si trattano argomenti tipo: “Ci sono venti carcerati che sono rovinati processualmente e non hanno mezzi economici per affrontare la situazione; l’impegno è di darci dai tre a quattro appartamenti ciascuno per avere un futuro economico sicuro sia loro che le loro famiglie; sempre i carcerati mi chiedono perché gli è stato diminuito il mensile dopo il mio arresto […]; solo per me spendo venti milioni al mese di avvocato, vestirmi, libretta e colloqui; […] i costruttori che sono in moto debbono uscire questi appartamenti […], se qualcuno babbìa [fa il finto tonto: N.d.A.] vi dico io quali sono stati i patti, […] e gliela debbo fare pagare; chi approfitta dei carcerati la paga perché è un infame”.
Quanto poi al principio costituzionale della rieducazione, che indubbiamente connota il nostro sistema nel senso dell’umanità e della civiltà, va detto – ancora una volta ragionando in termini non astratti – che esso è riferibile ai soggetti che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno. Non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili”, che non si sono pentiti e perciò vengono assoggettati al 41 bis. Non lo è ontologicamente, culturalmente e strutturalmente.
Perché quando si tratta di mafiosi non si può prescindere da due fatti concreti incontestabili: essi giurano fedeltà perpetua all’associazione; e chi non si pente conserva lo status di “uomo d’onore” per sempre. Una realtà all’evidenza assolutamente incompatibile con ogni prospettiva di recupero, salvo che il mafioso – pentendosi – dimostri concretamente di voler disertare dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte.
E poi la Costituzione non è un taxi da prendere solo quando fa comodo. Il mafioso è vissuto e vive per praticare in modo organizzato e sistemico intimidazione e assoggettamento, così da dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta dell’articolo 3 cpv. su cui si fonda la nostra Costituzione.
E se vuole accedere ai benefici che la Carta prevede, è naturale chiedergli di dimostrare di essere davvero rientrato nella Costituzione. Altrimenti pretenderebbe benefici senza aver fatto nulla di concreto per meritarli, e sarebbe sostanzialmente una truffa.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, il blog di Gian Carlo Caselli
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41 bis. Una pena ancora necessaria. Il problema sono le strutture
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