Giorgio Ambrosoli, le ragioni di una vita
“A mio padre devo gli esempi di coraggio, l’urgenza di non arrendersi supinamente al male, il giuramento di non preferire mai la vita alle ragioni della vita. Il suo insegnamento può riassumersi in una parola: essere un testimone”.
Queste sono le parole con le quali Paolo VI ha raccontato l’esempio ricevuto dal proprio padre. Le potrei utilizzare anch’io per descrivere mio papà, Giorgio Ambrosoli.
“Non preferire mai la vita alle ragioni della vita” è una sintesi rivelatrice e stupenda. Significa essere consapevoli che la vita non si risolve in esperienze diluite nel corso dell’esistenza. Essa si compie solo se l’insieme delle esperienze ha il fine evolutivo di lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato.
La vita è quindi impegno per gli altri; non viverla così è rinunciare al suo significato, quindi alla vita stessa.
Se questa considerazione, come mi pare, ha senso, allora nell’esempio di vita di papà troviamo qualcosa che non ha perso ragioni di attualità nonostante il passare degli anni.
Quaranta anni, una vita, eppure la sua testimonianza è lì, con la stessa luminosità del momento in cui egli compiva le sue scelte e le confermava giorno per giorno in quasi cinque anni di attività quale Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana: quando ha difeso la propria libertà dai tentativi di condizionamento più blandi e da quelli più diretti, quando ha rifiutato la corruzione e la sua logica, quando ha contrapposto alle minacce che gli venivano fatte la serenità del suo coraggio. Quando ha esercitato fino in fondo la sua responsabilità.
Lui ha vissuto!
Ciò che non si potrebbe dire se si fosse piegato, se avesse assecondato il sistema di potere che aveva determinato – tra gli altri – il fallimento di quella banca, se avesse anche solo accettato di operare in maniera più ordinaria la liquidazione di quella banca, mentre invece ha voluto eseguirla con tutto il rigore possibile per evitare che gravasse sui contribuenti.
A tutti questi anni di distanza, concentrare l’attenzione su chi rappresentava il male in quella vicenda ha assai meno utilità rispetto al comprendere come papà abbia potuto operare per come ha voluto.
Ed in questa prospettiva è importante evidenziare che egli ha avuto la capacità di circondarsi di persone con le quali aveva comunanza di ideali. Li ha chiamati a sé per collaborare alla liquidazione, o identificati tra coloro che erano già in forza alla Banca o erano lì stati mandati con funzioni di Polizia giudiziaria.
Mi riferisco in primis a Pino Gusmaroli, Luigi Pollini, Sinibaldo Tino, Vittorio Coda, Paolo Ivancich e Silvio Novembre. Senza la condivisione con loro del proprio impegno e dello spirito con il quale affrontare quella responsabilità, tutto sarebbe stato più difficile.
Tuttavia papà ha potuto essere la persona che è stata soprattutto grazie a mia madre: che ha rispettato, anche nel momento in cui ciò ha voluto dire convivere con la paura ed il dolore, le ragioni della loro unione, i valori intorno ai quali hanno voluto essere famiglia. E da allora custodisce e tramanda la memoria di papà, con discrezione, abnegazione ed amore.
Tutte queste persone hanno ed hanno operato con la stessa “straordinarietà” che viene riconosciuta a mio padre, anche se hanno agito nella normalità del proprio ruolo.
E quando la straordinarietà va declinata al plurale, ci rendiamo conto che può divenire ordinarietà. Quindi qualcosa alla portata di ciascuno di noi nella sfera di responsabilità (familiare, sociale, lavorativa) che ci è propria, assolvendo alla quale possiamo affermare le ragioni della nostra vita.
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