Salvini lasci ai magistrati la serenità di decidere su Carola
Il “caso” di Carola Rackete, comandante della Sea Watch, sul piano strettamente tecnico-giuridico si presta ad una molteplicità di letture penali e processuali, anche confliggenti fra loro.
Il catalogo degli interrogativi è lungo.
L’attracco è stato determinato da una situazione di emergenza?
È configurabile l’esimente dello stato di necessità (art. 54 del codice penale)?
Lo scontro con una motovedetta della Guardia di Finanza è stato doloso?
C’è stato (e di quale entità) un effettivo pericolo di naufragio e per la vita dei finanzieri?
La motovedetta è o non è una “nave da guerra”?
Era nota la presenza a bordo della nave di “persone vulnerabili a causa della loro età e delle condizioni di salute”, perciò bisognose di assistenza secondo la formula della Cedu?
In tal caso, vaneggia chi sostiene che la motovedetta avrebbe addirittura dovuto aiutare l’attracco scortando a terra la Sea Watch?
Non averlo fatto potrebbe configurare – dilatando all’estremo l’area delle mere ipotesi – quella di un’omissione di soccorso?
In tale ipotesi, sarebbe comunque applicabile l’esimente dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica (art. 51)?
Dunque, una matassa intricatissima che spetta ai magistrati di Agrigento dipanare.
Che si tratti di magistrati di valore, ligi soltanto alla legge, lo ha dimostrato il caso della nave Diciotti. Quando hanno saputo non lasciarsi condizionare dagli umori della piazza e men che mai dalla propaganda interessata di quella politica che invece di “governare” la sicurezza ci vede un’opportunità da sfruttare a fini di consenso, anche a scapito dei diritti e delle garanzie dei meno protetti.
Ma attenzione, i magistrati non ragionano a compartimenti stagni: se la politica chiede ossessivamente “tolleranza zero”; se aggredisce tutti coloro che a suo giudizio non la praticano abbastanza; se emette sentenze irrevocabili di condanna prima ancora che i processi comincino, diventa più difficile (magari inconsapevolmente) resistere alle suggestioni del Palazzo.
Tocca ai magistrati adempiere scrupolosamente i loro doveri, ma tocca al ministro dell’Interno abbassare i toni della propaganda e della polemica. Chiedere ossessivamente un arresto ed esultare vistosamente per una cattura sono cose che vanno bene per i criminali come Riina e Provenzano, non per Carola Rackete. Non prendere vigorosamente le distanze dai fan che insultano e minacciano nel modo più volgare, vigliacco ed incivile una donna arrestata, non è degno di uno statista. Gridare all’invasione del sacro suolo italico mentre i numeri degli arrivi sono infinitamente più bassi degli altri paesi europei, equivale a deformare strumentalmente problemi reali, allontanandone la soluzione.
Ovviamente ci sono anche considerazioni che oltrepassano il piano tecnico-giuridico. Quella della Sea Watch non è solo questione di migranti o di profughi, ma prima di tutto di naufraghi. Per cui non si possono dimenticare le leggi dell’umanità, quelle che impongono di salvare e assistere i naufraghi. Sempre e comunque.
Occorre infatti una cornice etica in cui inserire i valori di giustizia proclamati dagli organismi nazionali e internazionali. Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, Il Ponte, 1946), riflettendo sul processo di Norimberga, auspicava che le leggi dell’umanità – invece di essere solo una frase di stile, relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali – si affermino come vere leggi sanzionate; così che l’umanità – da vaga espressione retorica – diventi un ordinamento giuridico. Sono parole attualissime: un programma, un chiaro orientamento per un’Europa che voglia davvero affrontare i gravi problemi della migrazione con serietà, creando un’efficace cultura comune tra i vari paesi membri.
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