Processi e violenza di genere: contro lo “stupro di dignità”
Dal 1978 molto è cambiato nelle aule di giustizia ma oggi sono ancora presenti, e tollerati, ambigui tentativi delle difese di ribaltare il rapporto tra carnefice e vittima. Il giudice deve garantire la correttezza del processo anche a tutela della dignità della donna. Occorre un impegno culturale comune di magistrati e avvocati.
«Una lira»: fu questa la richiesta di risarcimento della parte civile – rappresentata da Tina Lagostena Bassi − nell’ormai famoso processo per stupro di Latina del 1978, diventato un film documentario diretto da Loredana Dordi. Con il titolo inglese A Trial for Rape, fu presentato al Festival di Berlino, insignito del Prix Italia for documentaries nonché di una nomination all’International Emmy Award. Una copia è conservata negli archivi del MoMA di New York. La Rai lo mandò in onda il 26 aprile del ’79 e fu seguito da ben 3 milioni di telespettatori, che salirono a 9 in occasione della replica, trasmessa in prima serata.
«Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare. Non ci interessa la condanna – esordì Lagostena Bassi – Noi vogliamo che in quest’aula ci sia resa giustizia, che è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Chiediamo che anche nelle aule dei Tribunali, e attraverso ciò che avviene nelle aule dei Tribunali, si modifichi la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Questa è la nostra richiesta».
Una requisitoria dura ma asciutta. Il dito puntato contro «un certo modo di fare i processi per violenza», con le donne trasformate sistematicamente in imputate: per la loro condotta, il loro modo di vestire, di fare, di parlare, perché in fondo in fondo «se la cercano», sono «consenzienti», «provocano»… Una linea difensiva costante, e costantemente tollerata, specchio di quel sentimento comune millenario che, osservò Lagostena Bassi, «consente domande tanto morbose quanto irrilevanti, toni sprezzanti nei confronti della vittima, atteggiamenti percepiti come scherzosamente complici tra gli uomini del processo». «Io – disse l’avvocata delle donne – sono l’accusatore di questo modo di fare i processi per violenza». Una modalità che mortifica la dignità della persona, aggiungendo altre ferite a quelle già subite. Non c’è risarcimento. Né c’è pena esemplare che possa garantire la fine dello stupro della dignità.
Forse fu proprio quella la “lezione” più importante del processo di Latina, quella richiesta di risarcimento simbolico, contro lo stupro della dignità della vittima, e l’idea di giustizia ad essa sottostante, con la chiara consapevolezza che il diritto penale non risolve il problema ma, semmai, lo rimuove. La strada maestra era – e resta – quella di un cambiamento radicale del modello culturale imperante – nelle strade e nelle aule di giustizia – senza distinzione di classi sociali, religioni, nazionalità e, purtroppo, spesso anche di genere. La strada maestra era – e resta – una grande mobilitazione culturale per la formazione di una coscienza collettiva – dalle istituzioni ai cittadini – fondata sul rispetto della diversità e della dignità della donna, che conferisca allo stigma sociale la forza e l’efficacia che lo stigma penale non ha.
Si ritiene che il processo di Latina abbia segnato un prima e un poi nel costume giudiziario e nel cosiddetto sentimento popolare. L’asciutta rappresentazione mediatica toccò molte corde, senza bisogno di effetti speciali. La giustizia – insieme all’Italia intera – si guardò allo specchio, e non si piacque. Cominciò quindi un lento cambiamento del costume giudiziario, favorito anche dal progressivo aumento di donne magistrate, portatrici di una sensibilità diversa. Ma dopo 39 anni da quello storico processo, la giustizia continua ad essere percepita come luogo ostile dalle vittime di violenza di genere, fin dall’inizio del loro calvario giudiziario. Ci si aspetta accoglienza, protezione e invece, complice un processo mediatico voyeuristico, si trova diffidenza e ambiguità. Perciò la maggioranza delle donne abusate sceglie ancora di stare lontana da quel “luogo”, rinunciando persino a denunciare. Un sommerso che le statistiche non registrano.
Anni fa, un giudice, per giustificare la misura degli arresti domiciliari, si lasciò andare a una motivazione più da bar che da tribunale: «Sarebbe meglio – scrisse – che le donne non uscissero la sera da sole». Non era un caso isolato. Qualche settimana fa, su La Stampa di Torino Carlo Federico Grosso – giurista e avvocato – segnalava che «nei processi per stupro talvolta sono ancora presenti e tollerati ambigui tentativi delle difese degli imputati di truccare le carte e di ribaltare il rapporto tra carnefice e vittima». Tentativi da stroncare sul nascere anche con un impegno diretto di Csm, Anm, Cnf, Camere penali, cioè di tutte le componenti istituzionali e associative della magistratura e dell’avvocatura. Inoltre, come osservava Grosso, il giudice dovrebbe farsi garante della correttezza dello svolgimento del processo: che dev’essere giusto per l’imputato ma deve anche tutelare il soggetto passivo della violenza. Perché così facendo non tutela soltanto le donne ma la dignità delle persone, «il diritto dei diritti, il super valore che per la sua stessa natura non può essere bilanciato con altri valori», lo ha definito nel suo Diario di una giudice Gabriella Luccioli, impegnata nella tutela della dignità delle donne su ogni fronte della giustizia.
Il costume giudiziario è quindi un tassello importante del contrasto alla violenza di genere. Più in generale, è un tassello essenziale del mosaico di quella mobilitazione culturale necessaria per la buona salute di una democrazia. «La démocratie est un comportament, un engagement. Faute de cet engagement, la technique constitutionnelle est morte» scriveva Boris Mirkine-Guetzévitch, giurista francese di origine russa. E riprendendo quel concetto, Piero Calamandrei sosteneva che il buon funzionamento del processo, e quindi della giustizia, dipende, più che dalla perfezione delle relative norme, dal «costume di chi è chiamato a metterle in pratica».
Parlare di mobilitazione culturale, dunque, non è parlar d’altro. «Il diritto penale non è mai uno strumento di progresso sociale, e comunque non lo è mai da solo» ricorda Massimo Donini, ordinario di diritto penale all’Università di Modena. «Quando viene usato come strumento di progresso – osserva – è il segno di una patologia sociale, di una difficoltà sociale grave nella disciplina e prevenzione di un fenomeno con altri mezzi». Ecco perché, con una bella metafora, suggerisce di coltivare «meno passione per il diritto penale e più amore per le donne». Anche nelle aule di giustizia.
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