“La paranza dei bambini”: la Google Generation di Gomorra
La paranza dei bambini è la figliazione di Gomorra, tanto del libro quanto della Serie Tv. L’incipit ha lo stesso valore simbolico del container che vomita cadaveri cinesi. Siamo immediatamente catapultati in un mondo infernale ad alto impatto visivo. Il lettore è spiazzato e messo sull’avviso. La situazione è ripugnante. Stomachevole. Difficile da affrontare, letteralmente e metaforicamente. L’estremizzazione surreale dell’inizio è paradossalmente il viatico del neorealismo. Saviano stabilisce un patto con il pubblico: se crede alla verosimiglianza dell’introduzione, allora potrà essere sicuro che l’intera storia è più vera della stessa realtà. Scegliendo di leggere il libro, il lettore accetta di lasciarsi guidare nei meandri della MalaNapoli.
Lo squarcio nel “ventre” della Napoli post-novecentesca cattura e avvince l’audience del centro-nord, affascinata dal racconto della camorra napoletana (di cui nulla conoscono), spinta dalla morbosa curiosità di chi pensa che le mafie siano, in fondo e nonostante tutto, un male meridionale e che gli stereotipi siano soltanto un’altra forma della realtà. Così, dopo aver dato fiducia allo scrittore, ripongono il libro doppiamente soddisfatti: da un lato hanno appagato la propria coscienza civica; dall’altro hanno la certezza che quell’Italia violenta e senza scrupoli, dove anche i bambini sono arruolati in una guerriglia urbana senza fine, non appartenga loro (dimenticando, volutamente, di vivere anch’essi sotto l’influenza di un silente dominio mafioso).
Saviano, piaccia o meno, ha portato alla ribalta nazionale, l’epica criminale mafiosa (e le polemiche innescate dalle sua dichiarazioni confermano l’interesse mediatico suscitato dal tema in questione). Una narrazione avvincente, impastata di citazioni letterarie e cinematografiche, che separa gli italiani dai napoletani, costretti, questi ultimi, a vivere in una dimensione di conflitto permanente, anche se non hanno niente da spartire con la camorra.
Gomorra, e quindi La paranza dei bambini, è il marchio editoriale che la metropoli si trascina pagina dopo pagina, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto. Un’epica criminale in cui reale e immaginario si confondono nella testa dei bambini della paranza. Vivono immersi nel liquido amniotico di mamma-camorra immaginando le gesta eroiche dei gangster-movie, delle crime-fiction e dei videogiochi action-adventure dai quali apprendono modi di dire e di vestire, posture del corpo, armi da usare, oggetti cult da possedere, frasi da ricordare, foto da condividere, dialoghi da tramandare, clip da visualizzare. Un continuo andirivieni tra immaginario e reale che rovescia la percezione del vissuto. Ecco alcuni esempi: «Mi sento comme ‘o vampiro di Twilight!»; «Ma che si’? Point Break?»; «Me piace Macchiavelli… Pecché te ‘mpara a cummannà»; «Quella felpa nera con l’immagine di Tupac Shakur non se la toglieva mai»; «Ma lui era sempre stato un uomo d’azione, come Wolverine – si era tatuato i suoi artigli sugli avambracci…»; «’A primma regola del Fight Club è che il Fight Club non esiste»; «L’avete visto Il camorrista, no? Quando ‘o professore fa il giuramento in carcere. Veritavéllo, stà ‘ncoppa a YouTube»; «Sembri Arno di Assassin’s Creed»; «è come se fossimo Angelo degli X-Men, capì?»; «ma serio… si’ proprio American Sniper»; «… il padre di Biscottino, ammazzato dai poliziotti, caduto durante una rapina, era un martire entrato a far parte del suo personale pantheon di eroi…»; «avrebbe voluto le mandibole gonfie come quelle di Marlon Brado, di don Vito Corleone»; e potrei continuare.
Cosa ci dicono gli esempi riportati? Dai vampiri a Macchiavelli, dagli X-Men al professore di Vesuviano, dal personaggio di un famoso videogioco al protagonista di un violento film di guerra, dal rapinatore sparato “nell’esercizio delle sue funzioni” al Padrino tutti appartengono al patrimonio fiabesco dei “paranzini”; tutti rappresentano un modello ideale a cui ispirarsi per raggiungere il successo, criminale ovviamente. È evidente, tuttavia, che la vulgata dell’immaginario, come base di riferimento dell’agire reale, non appartiene veramente ai giovani ‘e miezza ‘a via di Forcella (o di qualsiasi altro quartiere napoletano). È l’universo simbolico dello scrittore che prende forma attraverso le parole dei suoi personaggi. Un universo che Saviano condivide con il lettore delle sue opere e che dimostra la sintonia culturale tra l’autore e il suo pubblico, in gran parte costituito da giovani e appassionati spettatori di crime-fiction, di mafia-movies e crime-action, di videogiochi strategici e “sparatutto” e della letteratura noir, regina del mercato editoriale italiano. Un universo al quale appartiene lo stesso scrittore, oggetto di culto mediatico, e Gomorra – La serie, di cui è sceneggiatore, citata ben due volte (con riferimenti alla seconda e alla prima stagione): «… fai la fine d’ ‘o Mulatt’, c’ ‘a mano tagliata!»; «Non mi fate bere pisciazza, don Vitto’, per dimostrarvi che vi potete fidare». Non credo si tratti di vanagloria autoreferenziale (sarebbe banale), piuttosto vuole sottolineare che la fiction è ormai parte del patrimonio favoloso su cui si fonda la realtà di questa nuova generazione criminale.
Insomma, l’immaginario inquadra il testo nel novero dei romanzi di formazione. Il mondo fantastico della paranza, trasversale all’intero testo, è la materia che modella il passaggio dall’adolescenza all’età adulta della prima Google generation criminale. Scriveva Riccardo Orioles nel 1983: «I bambini russi sono intelligentissimi. A dieci anni sono già campioni di scacchi. I bambini americani sono ancora più intelligenti. A nove anni già manovrano il computer. I bambini napoletani sono i più intelligenti di tutti. A otto anni già sopravvivono» (I Siciliani). Mi pare che questa sia la motivazione di fondo che spinge i protagonisti del libro verso un ineluttabile destino di crimini e delitti. È come se l’autorevolezza letteraria di Saviano provenisse dal suo essere stato un ex adolescente napoletano che, grazie al dono della scrittura, è riuscito a sfuggire al tocco velenoso della camorra/medusa. Un’eventualità da cui nessuno è escluso, come dimostra l’origine piccolo borghese, assolutamente “normale”, della famiglia da cui proviene il capo della paranza, Nicolas.
Il biondo adolescente, con le ali tatuate dietro la schiena, emerge dal gruppo perché ha una visione chiara, a differenza del gregge, di ciò che deve essere la camorra nell’era digitale: «Noi amm’ fà come Google… Perché è bbuono e perché è gratis… Prima diventammo Google e poi, quando tutti vengono a cercare da noi, allora li fottiamo». Il protagonista è l’evoluzione del personaggio della Serie chiamato ‘O Track a cui è stata depotenziata la sfera irrazionale a favore di quella razionale (perciò non è destinato “a fare la botta”). Nicolas ha un’attitudine naturale al comando ed ha tutte le caratteristiche tipiche del boss di camorra: il potere come benessere, la violenza come deterrente, il tradimento come paranoia, l’inganno come soluzione, il rispetto come valore. Ma una cosa lo rende differente dai suoi coetanei: «Voleva avere il coraggio di affermare che quel sistema era vecchio. Il nemico del tuo nemico è tuo alleato, indipendentemente dal sangue e dalle relazioni»; disprezza chi si ostina «a mischiare sangue e affari, famiglia e soldi». L’unico modo per spezzare la catena delle conseguenze è la fratellanza di sangue: «Il fratello di sangue è qualcosa da cui non si torna più indietro. I destini si legano alle regole. Si muore o si vive a seconda della capacità di stare dentro quelle regole. La ‘ndrangheta ha sempre contrapposto i fratelli di sangue ai fratelli di peccato, cioè il fratello che ti dà tua madre peccando con tuo padre al fratello che ti scegli, quello che non c’entra con la biologia, che non deriva da un utero, da uno spermatozoo. Quello che nasce dal sangue».
Certe volte Saviano, in quest’ultima scena e in molte altre, pare voglia recitare la parte dello scrittore “bianco” che, avendo vissuto nel ghetto, sente l’urgenza di raccontare la vita dannata dei “nigger” italiani, ovvero dei giovani violenti napoletani ammassati nel carnaio della metropoli, allo stesso modo dei “fratelli americani” con cui condividono la violenza di strada, il controllo militare del territorio, lo spaccio pubblico, la morte prematura, l’organizzazione per gang e persino la mania dell’hip hop; questi, più della ‘ndrangheta, mi sembrano i veri riferimenti a cui si ispira per definire la fratellanza di sangue. Infatti la parola impiegata dai “paranzini” per rivolgersi ad un fratello di sangue è “Bro’”, cioè l’abbreviazione di Brother, e non il termine della tradizione gergale mafiosa di “compare”.
Del resto, proprio come i neri dei ghetti, gli adolescenti della camorra degradano la lingua napoletana in slang al fine di fondere l’identità criminale in quella territoriale, nel senso più ampio del termine. Non a caso Saviano, nelle note finali, avverte il lettore di essersi voluto cimentare con il dialetto. Una lingua malleabile, sottoposta a qualche forzatura «dentro l’esercizio della scrittura».
Proviamo ad analizzare meglio il vernacolo “forzato” dell’autore. La lingua non è quella della napoletanità di Di Giacomo o di Eduardo, né il volgare dell’antica capitale e nemmeno il dialetto sporco della napoletaneria di La Capria. Allora, cos’è? È piuttosto una idioma glocale che salda il territorio urbano, la comunità locale e la mentalità criminale alla sfera dei new media (incorporando l’immaginario sedimentato dagli old media). Se proprio vogliamo trovare una definizione per il napoletano della Google generation deviante, potremmo dire che si è passati dalla napoletanità al napoletanismo, attraverso la napoletaneria del secondo Novecento.
Il gergo di questi adolescenti violenti è la manifestazione plastica di un integralismo culturale chiuso al confronto tra identità locale e dimensione nazionale, ma contemporaneamente aperto alle influenze della globalizzazione digitale. La Napoli di Saviano è claustrofobica, serrata tra i vicoli di Forcella e i fortini di Ponticelli e San Giovanni. L’Italia è una terra straniera, odiata, che cattura e snatura i “fratelli” più deboli, incapaci di farsi spazio nel magma della metropoli.
Ecco come esplode l’odio: «Questa è la città più bella del mondo, hai capito?, e schifo a chi ne parla male!… Io li vedo quei fottutissimi, quelli che vanno a Roma, a Milano, quelli che ci sputano addosso. Io li vedo bene gli sputtanapoli… E sai che ti dico: che devono morire. Tutti gli sputtanapoli devono morire».
Cos’è allora il napoletanismo? Un fondamentalismo che traccia i confini tra il dentro e il fuori, che cementa l’identità territoriale alla identità maginale/deviante, rovesciando il vittimismo postunitario nell’orgoglio criminale della Globalizzazione, all’interno di un movimento generale di crisi degli stati nazionali e di protagonismo delle grandi metropoli mondiali, incubatrici di un futuro incerto e feroce. Un jihad criminale giustificata dall’idea stereotipata di un violento riscatto sociale. Nicolas, parlando dell’Isis, dice: «Chi va a morire per ottene’ ‘nu fatto, è uno gruosso… Tengo rispetto pure pecché tutti hanno paura di loro. Questo significa che ce l’hai fatta…». Un terrorismo neoplebeo, privo di reali motivazioni storiche, che prova strumentalmente a unire la grandezza di Napoli, sfregiata dalla perdita dello status di capitale, al potere della camorra. L’Italia, con le sue istituzioni, ad eccezione della scuola (unico legame con il mondo di fuori), dell’ospedale (una specie di infermeria da campo di battaglia) e del tribunale (teatro di rappresentazione dei codici della camorra, più che della repressione dello Stato), è assente. Non ci sono poliziotti che arrestano, né magistrati che indagano, i medici non si vedono, solo gli avvocati, utili e opportunisti, conquistano il centro della scena in una città in cui le vere istituzioni locali sono i locali eleganti in cui si riciclano i soldi del narcotraffico. I napoletani sembrano vivere in un palla di vetro, sempre uguale a se stessa, immobile nella sua fissità, in attesa di essere agitata e avvolta da una nuova nevicata di sangue. Napoli appare l’opposto della città mondo che è sempre stata in cui si muovono giovani criminali afflitti dalla sindrome di Spartaco: vogliono combattere la schiavitù con metodi e obiettivi che rafforzano il sistema di cui sono prigionieri. Basta solo pensare a questo: spacciano droga e la consumano in grande quantità; praticano la violenza e la subiscono come un evento naturale; sparano e sono a loro volta bersagli; voglio la libertà e finiscono in galera; desiderano il potere e sono schiacciati dalle logiche dei clan; vogliono vivere senza limiti ma muoiono ammazzati come cani.
Quella di Saviano è l’immagine percepita della Napoli contemporanea. La sua storia criminale, risale, di tanto in tanto, in superficie attraverso i ricordi di alcuni personaggi o riemerge, sotto forma di mito, nelle battute dei “paranzini” che ripetono a memoria i dialoghi de Il camorrista di Tornatore. Anzi, Nicolas costruisce un ponte tra gli anni ‘80 e l’oggi organizzando il cerimoniale di affiliazione alla paranza così come si vede nel film. L’identità del gruppo si basa sulla replicazione di un giuramento che in realtà non è mai avvenuto, con quelle parole e modalità, essendo una rappresentazione cinematografica, o meglio un frammento della rappresentazione trapiantato nella vita quotidiana attraverso la replicabilità ubiqua di YouTube. Questo è uno dei tanti esempi di interferenza invasiva dell’immaginario mediale nella realtà dei guaglioni ‘e miezza ‘a via.
Si tratta, tuttavia, di una Napoli neorealista alla maniera del noir italiano: mette in scena ansie, paure e incubi della società attuale. Nelle pieghe della trama troviamo talora esplicitati, talora in stato di latenza, anche i segni di turbamenti sociali, di pessimismi privati e collettivi, di terrori indecifrabili, di angosce impercettibili congelate nei pensieri dei napoletani e degli italiani che guardano Napoli con sgomento. Una città senza eroi e antieroi completamente abbandonata al suo universo orrifico e disturbante di un reale che è nella società, malgrado si tenda ad esorcizzarlo. È la Napoli delle “stese”: «Terrorizzare era il modo più economico e veloce per appropriarsi del territorio… si cominciava a sparare ovunque a casaccio… Il terrore che Nicolas e gli altri vedevano sulle facce delle persone era il terrore che avrebbe permesso loro di comandare… come un’irruzione delle forze speciali». Nel cuore di questo territorio fisico e culturale la macchina narrativa conduce il lettore, cosciente che non vi può essere nessun lieto fine, né un rassicurante confine tra Bene e Male. Ma il noir di Saviano è una tendenza dell’immaginario che può attraversare generi e sottogeneri con una forte politicità attribuita all’atto del narrare in forma antagonista, recuperando, attraverso il gesto creativo della scrittura insofferente, la funzione ideologica al testo e al ruolo intellettuale dell’autore. Insomma, scrive di Napoli ma parla di sé e più precisamente del suo rapporto con la città, soprattutto quando la narrazione assume il “punto di vista di Caino”, ovvero quando mira a coinvolgere il lettore in un insidioso processo di identificazione: guardare la realtà nel corpo e nelle emozioni di chi vive il lato oscuro, essere trascinati nella psicologia, nelle motivazioni e nel piacere di un soggetto che, a livello razionale, è percepito ed è un camorrista. Gli ambienti, le vie, le atmosfere metropolitane disegnano una zona limite dove la normalità è apparenza, riguarda gli altri, quelli non appartenenti all’antropologia di un sistema criminale che è anche sistema economico, sociale e culturale. Nella cupa notte napoletana si aggirano i bambini della paranza arrampicandosi sulle macerie del Villaggio globale; i media hanno invaso il pianeta e preso il controllo delle coscienze stravolgendo i rapporti umani e confondendo la realtà oggettiva con la fiction.
Una realtà che merita di essere raccontata come una sceneggiatura: Saviano, infatti, pare aver costruito i dialoghi, gli ambienti, i personaggi, le scene d’azione, d’amore e di fratellanza avendo in testa la futura resa cinematografica o televisiva. Un copione in cui l’immaginario dell’autore s’intreccia e si confonde con quello dei suoi personaggi al punto da non sapere più se i film, le fiction, i videogiochi e l’attivismo social sia attribuibile alla Google generation oggetto della narrazione o allo stesso Saviano, soggetto narrante.
Sin dalla prima scena, come in Gomorra – La Serie, abbiamo a che fare con Facebook. Un like pubblicato sul profilo della ragazza di Nicolas è motivo di un’esemplare spedizione punitiva, ripresa in diretta e rilanciata in rete come lezione da impartire al debole di turno, con l’aggiunta della punizione moralmente degradante. Pagina dopo pagina, l’uso dei social e della messaggistica istantanea diventano, tramite l’uso compulsivo dello smartphone, il fulcro del sistema di comunicazione della paranza. WhatsApp è uno strumento di comunicazione strategico (grazie alla crittografia ent-to-end): il gruppo fisico è coincidente con il gruppo virtuale della messaggistica istantanea.
Come qualsiasi altro coetaneo, smanettano in Internet passando da una piattaforma all’altra, attribuendo ad ognuna uno specifico obiettivo comunicativo. Facebook è la vetrina del personal branding: un’impalcatura virtuale su cui montare, con parole, immagini, video e musica, l’epica del giovane di rispetto («Drone iniziò a postare su Facebook foto sue e di Nicolas, era il suo modo per aumentare la protezione, si creava un’assicurazione sulla vita»).
Youtube è l’archivio infinito di frammenti cinematografici, televisivi, musicali e tecnologici che alimenta il capitale immaginario da cui assorbono, per emulazione, la conoscenza che un tempo si apprendeva dai libri o dalla pratica quotidiana («Biscottino aveva imparato tutto sulle pistole, tutto ciò che è possibile imparare da YouTube senza aver mai sparato. Ché YouTube è il maestro sempre. Quello che sa, che risponde»). Si nutrono di clip, trailer, video e tutorial rimescolandoli in unico calderone mediale glocalizzato capace di funzionare sia come fonte di riconoscimento collettivo, sia come elemento distintivo individuale («Decise di aprire un account YouTube facendo in modo che fosse impossibile ricondurlo al suo ID: voleva caricare il video di loro che sparavano»).
Twitter è poco frequentato, ma utile per conoscere le notizie, i trend, del mondo di fuori («Guardate sta notifica ‘e Twitter… Ce sta ‘n’articolo… Girami ‘o link»). Instagram, invece, è il glamour magazine per eccellenza dove persino narcos, mafiosi e camorristi possono spacciarsi per “rich kids” postando le immagini di un benessere esagerato e senza rispetto della povertà altrui: Rolex d’oro, Iphone ultimo modello, scarpe pitonate, mutande firmate, anelli, collane, scooter, ostriche, caviale, fiumi di champagne. Una quantità infinita di selfie con bicchieri levati al cielo, impennate, abbracci fraterni, pose da gangster, pistole in bella mostra e qualche Kalashnikov. Il social dell’apparenza in cui un personaggio come Dan Blitzerian (giocatore di poker con una vita “spericolata” piena di feste, belle ragazze, auto sportive, ville di lusso e armi da collezione) è una star da un milione di follower, tra cui gli stessi “paranzini” che vorrebbero essere anche loro protagonisti di una vita da film (ancora una volta immaginario e reale si confondono smarrendo il senso del limite).
Infine la Play Station che, con i videogiochi sparatutto e i simulatori di guida, è uno strumento di allenamento virtuale per affrontare il reale: «Fai partire Call of Duty. Facimmo Mission One. Quella dove stiamo in Africa. Così mi riscaldo a sparà ncopp’ ‘e nire» (proprio come è accaduto qualche giorno fa a Forcella).
L’attivismo social della Google generation criminale esibisce con naturalezza l’orgoglio della propria identità deviante, come un aspetto del tutto normale, all’interno di un ambiente virtuale che ha come scopo la replicazione della vita reale. La rivoluzione digitale ha annullato i parametri culturali, e con essi i limiti, ascrivibili al Novecento: basta un click per entrare in una dimensione in cui le coordinate del “sapere analogico” (l’apprendimento attraverso la carta stampata) sono state messe in crisi dall’avanzare della pratica digitale (la condivisione di contenuti multimediali). La differenza tra le due modalità è la stessa che passa tra professione e mestiere: la leva al “mestiere digitale” ha ampliato a dismisura la platea dei praticanti con un duplice effetto: da un lato si è allargata la base interclassista (o interculturale), dall’altro è aumentata la banalizzazione dei contenuti; banalizzazione che, ovviamente, riguarda anche il male o il cosiddetto odio on-line.
I nativi digitali di Gomorra, grazie alle capacità manuali di dominazione del mezzo, non hanno più bisogno di dover scontare eventuali provenienze, geografiche e sociali, periferiche. Nel “mestiere digitale” conta l’approccio: la capacità di unire reale e virtuale concependo un codice, in grado di accavallare i due mondi, che piega lo scritto al parlato e la parola alle immagini fino al punto da trasformare un sentimento complesso in un segno grafico intuitivo. Non importa se sei onesto o malamente, ciò che conta è saperlo comunicare in maniera inequivocabile, realizzando l’immaginario e immaginando la realtà.
Articolo apparso su “Questione Giustizia” e pubblicato con il consenso dell’autore
Trackback dal tuo sito.