Verdelli e fake news
Ebbi occasione di parlare per pochi minuti con Carlo Verdelli, all’inizio del suo mandato, ai margini di un convegno organizzato a viale Mazzini con l’Associazione dei dirigenti pensionati Rai. Nel mio intervento avevo sostenuto la necessità di procedere al superamento di quella struttura per testate separate che l’informazione del servizio pubblico radiotelevisivo aveva ereditato dalla riforma del 1976: sarebbe stato utile invece accentuare il piano Gubitosi, che si muoveva in direzione della integrazione. Ripetei a Verdelli la mia opinione: mi rispose che al contrario avrebbe cercato di realizzare la sua riforma lasciando le testate al loro posto. “Non ci riuscirà!” gli dissi francamente. “Allora mi dimetterò” fu la sua risposta.
Ora che questo è avvenuto, dopo un piano bocciato non si sa bene come e perché – ma certo anche a seguito di azioni interne e esterne di disturbo, propiziate dalla fuga di notizie che ha portato alla parziale pubblicazione del piano da parte de L’Espresso – dopo la bocciatura dunque di un piano che presentava lacune e ingenuità, ma del quale a quanto è dato sapere è stata respinta soprattutto la parte più positiva, cioè l’integrazione tra il canale allnews di Rainews24 e l’informazione territoriale della TGR; dopo tutto questo, oltre al rispetto per la coerenza di Verdelli, viene da esprimere lo scoramento per la situazione della Rai, sempre più lontana da un ruolo significativo nella formazione della opinione pubblica italiana.
(Già: perché se non si crede che si possa e si debba intervenire perché l’opinione pubblica cresca in libertà, conoscenze veritiere e contenuti culturali di qualità, e che ciò possa essere il compito principale di un servizio pubblico, se non si crede in questo è meglio certo chiuderla questa benedetta Rai…).
Mentre esplode il dibattito sulle fake news e lo scontro tra la pretesa grillina di sottomettere il giudizio a tribunali popolari (che, come il suo movimento, sarebbero inevitabilmente controllati da un vertice oligarchico a carattere potenzialmente giacobino) e in altre sedi si prospettano strutture censorie istituzionali sul web, la RAI nulla ha da dire?
La risposta agli attacchi virulenti alla informazione radiotelevisiva finora è venuta solo da Enrico Mentana, il quale intende passare alle querele, perché lui alla sua immagine di giornalista indipendente e credibile tiene davvero. E così, vero o falso che sia, il suo TgLa7 appare l’unico interessato a difendere la propria professionalità.
In realtà, se la RAI dovesse rispondere a tutela non tanto della propria onorabilità, ma della propria funzione primaria, avrebbe qualche difficoltà. Risponderebbero i singoli direttori di Testata? Il direttore generale? La presidente? Il consiglio di amministrazione o i singoli consiglieri? Non certo il direttore per il coordinamento editoriale dell’informazione, che si è dimesso. Ciascuno di costoro, più di una ventina di persone, avrebbe la propria risposta. Dunque è meglio che tutti tacciano.
Certo ciascuno sarebbe d’accordo nel fronteggiare l’attacco di Grillo, ma se ci fosse sincerità qualcuno tra loro, magari nel giusto, avanzerebbe dubbi: sì, forse è vero che i TG non sono sempre del tutto veritieri; sì, forse è vero che sono contigui agli interessi di potere; sì, forse è vero che la classe giornalistica manca di autonomia e professionalità sufficienti a garantirsi la credibilità che la gente vorrebbe, e dunque viene percepita come parte della casta anziché come cane da guardia della democrazia.
Ma nessuno, in Rai, oggi può dire queste cose, perché verrebbero lette non come verità ma come attacchi di parte, come armi della guerra intestina ai partiti, alle testate, ai loro referenti nei più disparati centri di potere. Questa è la realtà della struttura informativa della RAI, oggi: una realtà che intrinsecamente offre strumenti dialettici e terreno fertile alla pretesa grillina di controllare l’informazione con i tribunali popolari.
Nello scoramento di questi giorni chi, come me, conserva nella mente l’immagine di un servizio pubblico utile e di qualità, è costretto ad ammettere anzitutto il fallimento sostanziale delle scelte di Renzi rispetto alla Rai: Campo Dall’Orto con Verdelli ha fallito una parte essenziale del suo mandato; salvo conigli nel cappello, dovrà trarne le conseguenze.
Subito dopo mi viene da ripetere, un po’ stancamente, cose già dette: nessuno può o deve mettere mano alla RAI senza ampi poteri che comprendano il diritto a decostruire la struttura oligarchica che la governa, e la ferma volontà di usare questi poteri. Non si può ricostruire una cultura di servizio pubblico dove agiscono prevalentemente interessi privati.
Avevo sperato, dopo tanti anni, che si fosse aperto uno spiraglio. Sbagliavo.
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