Omicidio Bruno Caccia: partenza con rinvio per il processo
Sono trascorsi ben trentatré anni da quel 26 giugno 1983, quando a Torino fu ucciso il procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Un omicidio inizialmente inquadrato nella difficile temperie del terrorismo interno e poi, con il passare degli anni, ricondotto più correttamente nell’ambito della lotta alla criminalità mafiosa che, in quegli anni, stava mettendo radici in Piemonte.
Dopo la condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore, in qualità di mandante dell’omicidio, la svolta si è avuta il 22 dicembre dello scorso anno, con l’arresto di Rocco Schirripa, originario di Gioiosa Jonica, accusato di avere materialmente eseguito il delitto. A tradire Schirripa una lettera anonima, inviata agli uomini del clan Belfiore dalla squadra mobile di Torino, nel corso delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal sostituto Marcello Tatangelo della DDA di Milano. Una trappola ben architettata e meglio riuscita: la lettera, contenente una fotocopia di un articolo de “La Stampa” dell’epoca con il nome di Schirripa sul retro, innescò una reazione a catena facendo sciogliere le lingue degli uomini di Belfiore, compreso lo stesso Schirripa, che veniva fermato prima della fuga annunciata.
A distanza di qualche mese, il 6 luglio ultimo scorso davanti alla Corte d’Assise di Milano si è aperto il processo ai danni dello stesso Schirripa e all’avvio dei lavori hanno presenziato le figlie e i nipoti del magistrato, accompagnati dai referenti e dai giovani di Libera.
La prima udienza, iniziata con un paio d’ore di ritardo per la mancata tempestiva traduzione dell’imputato dal carcere di Opera, ha visto la presentazione delle richieste di costituzione di parte civile da parte della Presidenza del Consiglio e del Ministero di Giustizia, dal Comune di Torino e della Regione Piemonte, dell’associazione Libera e dei nipoti di Caccia che hanno chiesto di entrare anche loro come parte lesa nel procedimento in corso.
Le richieste avanzate dalla Presidenza del Consiglio, del Ministero di Giustizia e della Regione Piemonte e del Comune di Torino hanno preso poco tempo e hanno esplicitato le legittime aspettative delle istituzioni locali e nazionali ad essere ammesse nel procedimento.
Più articolata, invece, è stata la presentazione da parte dell’avvocato di Libera, Enza Rando che ha sintetizzato un atto corposo e una ancora più voluminosa documentazione a supporto, depositata presso la cancelleria della Corte d’Assise.
Richiamando i compiti statutari di Libera, l’avvocato Rando ha ricordato che l’omicidio Caccia “ha inequivocabilmente leso il diritto della personalità dell’anzidetta associazione, offendendo in maniera diretta ed immediata lo scopo sociale della stessa”: il contrasto alle organizzazioni mafiose, anche a partire dall’assistenza legale, materiale e morale dei familiari delle vittime di mafia.
È stata quindi richiamata la lunga serie di attività svolte da Libera, in campo educativo, sociale, economico, con la promozione della legge 109/96 a livello nazionale e una ricca e variegata serie di interventi, per rafforzare la rete dell’antimafia sociale e responsabile in Piemonte: tra questi spicca il lavoro per la destinazione ad uso sociale di “Cascina Bruno e Carla Caccia”, bene confiscato a San Sebastiano da Po, prima appartenente alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore e oggi gestito da Gruppo Abele e Acmos per un progetto di comunità, educazione, formazione e ospitalità. E anche la costituzione di parte civile nell’ambito del procedimento Minotauro, a carico delle cosche calabresi operanti in Piemonte.
Secondo l’avvocato Rando, proprio l’impegno e la storia dell’associazione sul territorio piemontese fanno di Libera un “ente esponenziale dell’interesse diffuso alla liberazione sociale ed economica dall’oppressione ‘ndranghetistica e alla tutela delle vittime, finalità che assurgono per l’associazione, in ragione del processo di immedesimazione fra l’ente stesso e l’interesse perseguito, al rango di diritti soggettivi iure proprio tutelabili e risarcibili allorché risultino danneggiati dalle attività delittuose imputabili alle cosche”.
L’avvocato di Libera ha quindi letto l’elenco dei tanti magistrati uccisi dalle mafie in Italia: Caccia è in quell’elenco in quanto fu uno dei primi a capire la pericolosità della presenza delle cosche nel nord Italia. Visto che “con il Procuratore Caccia non ci si poteva parlare”, stando alle parole di Domenico Belfiore, lo stesso andava tolto di mezzo.
La presenza di Libera nel processo Caccia, nel caso venga accolta la richiesta di costituzione, si spiega con la lesione di un proprio diritto, ancorché Libera sia nata formalmente dopo l’assassinio del Procuratore di Torino: un diritto già desumibile dalla presenza e dalle attività delle tante associazioni che, a partire dal 1995, si sono riconosciute poi nel cammino del network guidato da don Luigi Ciotti. Del resto una conferma diretta della correttezza di questa impostazione è venuta dal riconoscimento di Libera come parte civile in una ventina di processi in tutta Italia in questi ultimi anni, tra i quali si ricordano quelli per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno o quello riguardante la trattativa Stato-mafia.
Si configura quindi una lesione diretta degli scopi statutari prioritari, secondo quanto già stabilito dalla Corte di Cassazione nel 1990: «Un soggetto può costituirsi parte civile non soltanto quando il danno riguardi un bene su cui egli vanti un diritto patrimoniale, ma più in generale quando il danno coincida con una lesione di un diritto soggettivo del soggetto stesso, come avviene nel caso in cui offeso sia l’interesse perseguito da un’associazione in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, da essa associazione assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell’ente, a causa della immedesimazione fra sodalizio e l’interesse perseguito».
La difesa di Schirripa non ha avuto da eccepire sulla costituzione di parte civile dei nipoti di Caccia e della Presidenza del Consiglio e del Ministero di Giustizia. Ha contestato il danno diretto al Comune di Torino e alla Regione Piemonte, in quanto ha assunto come linea difensiva la volontà di tenere fuori dall’aula il tema della criminalità mafiosa, in particolare ‘ndranghetista.
Rifacendosi al capo d’imputazione, l’avvocato Mauro Anetrini ha sottolineato come oggetto del processo sia la partecipazione di Schirripa allo specifico omicidio Caccia e non la riconducibilità di questo reato al sodalizio ‘ndranghetista, vista la mancata contestazione dell’articolo 416 bis e dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991.
E se non si parla di mafia o ‘ndrangheta, secondo l’avvocato difensore di Schirripa, pur riconoscendone i meriti, Libera non è legittimata a stare in processo. Tanto più che, secondo Anetrini, non si capisce come faccia a configurarsi un danno ad un diritto in capo ad un soggetto che è nato dopo l’evento lesivo stesso: Caccia fu ucciso nel 1983 e Libera nacque dodici anni dopo.
Una disputa giuridica che potrà essere sciolta solo il prossimo 14 settembre, data della nuova udienza. Infatti, la Corte d’Assise, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, si è riservata di emettere un’ordinanza in merito alle richieste avanzate, in quanto la sua composizione è provvisoria: il presidente attuale infatti è supplente e si attende nelle prossime settimane la nomina del titolare. L’ammissione o meno di alcune parti nel processo è una decisione in grado di influenzare profondamente il corso dello stesso, ragione per cui è opportuno sia la Corte nella sua composizione definitiva ad esprimersi.
Chissà che in quella data, in aula, non sia ancora una volta il nero il colore dominante: non solo quello delle magliette dei ragazzi e delle ragazze di Libera, ma anche quello delle toghe dei magistrati.
Sarebbe un bel segnale, per dimostrare che l’uccisione di un rappresentante della Legge è un danno alla collettività intera e che, in prima fila, a chiedere che sia fatta giustizia ci sono i colleghi di chi ha pagato con la vita il giuramento di fedeltà alla Repubblica.
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