E’ ora di cancellare il termine “razza” dalla nostra Costituzione
L’articolo 3 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E’, senza dubbio, uno degli articoli più belli della nostra Carta come ci ha ricordato anche il neo vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, il 5 dicembre 2015 nel giorno nel suo insediamento. E, tuttavia, una rettifica si potrebbe apportare eliminando quella parola “razza” così stigmatizzante, se è vero che, ormai, non ha più alcun valore scientifico perché le diversità e le somiglianze tra le varie comunità umane non dipendono dalla pigmentazione della pelle o da altri fattori genetici, ma sono culturali, legate, cioè, a saperi e pratiche che vengono acquisite dall’uomo nelle singole società. In Francia, nel 2013, il Parlamento aveva già approvato la proposta di cancellare dalla Costituzione questo termine, modificando il testo in “..la Repubblica combatte il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia..” e “..non riconosce l’esistenza di alcuna presunta razza”. In Italia, una segnalazione stimolante in tal senso era stata avanzata, nell’ottobre 2014, da Gianfranco Biondi (Ordinario di Antropologia presso l’Università di L’Aquila) e Olga Rickards (Ordinaria di Antropologia Molecolare presso l’Università Tor Vergata di Roma), con una lettera spedita alle alte cariche dello Stato. Se è vero che eliminare dalla Carta e dalle altre leggi una parola così negativa e pericolosa non risolve il problema, perché i razzisti restano sempre abbarbicati al loro pregiudizio, è pur vero che tale abolizione sarebbe un colpo forte verso un atteggiamento culturale ancora molto diffuso nel nostro e in molti altri paesi ( e gli atteggiamenti inqualificabili di questi giorni in molti paesi europei verso i migranti profughi lo testimoniano ampiamente)
Per cercare di capire da dove abbia avuto origine il concetto di razza, bisogna rifarsi all’Europa del Settecento, quando scienziati e accademici di varia estrazione iniziarono a catalogare minerali, vegetali, animali, esseri umani. Si decisero, così, le razze, che conformano l’umanità, come diverse per civiltà, bellezza, sapienza, forza. Si stilarono, con criteri soggettivi, ambigui, a volte ridicoli, le graduatorie dei popoli più belli, più evoluti, più intraprendenti, più intelligenti. In generale, neri ed ebrei sono sempre finiti in fondo alle classifiche. In un tempo in cui si andava diffondendo l’universalità dei principi, il razzismo fu anche utilizzato per recuperare il “senso di appartenenza” ad una comunità selezionata, “eletta”. Se gli esseri umani erano proclamati “uguali” , vi erano le “eccezioni” che servivano a giustificare le schiavitù, a legittimare la borghesia occidentale che emergeva come “razza superiore”, a legittimare il dominio delle potenze sulle colonie. La razza, in realtà, è una grande menzogna, divenuta, nel tempo, un “fatto” e cristallizzata in leggi elaborate e imposte. Per esempio, l’ordinamento nazista riteneva sufficiente “una goccia di sangue ebreo” per stabilire che una persona fosse di razza giudaica, anche se non aveva praticato l’ebraismo e non era neanche a conoscenza delle sue origini semite.
Si può dire che, oggi, in alcune zone dell’Italia, gli stranieri stiano subendo un processo analogo di emarginazione fondata ancora una volta su presupposti razziali? A me pare di si. Quando il nostro paese è divenuto di immigrazione, la legislazione, che doveva regolare il nuovo processo non ha avuto come obiettivo quello di permettere ai nuovi arrivati di partecipare, da pari, ai benefici offerti dall’essere in Italia. Al contrario, si sono approvate leggi e sviluppate politiche ( e prassi amministrative) cariche di pregiudizi, che hanno costruito la “minorità” dei migranti. La legge del 1992 sulla cittadinanza, per esempio, e il trattamento ancora oggi riservato agli immigrati irregolari ( in gran parte profughi) esprimono chiaramente questa tendenza. Il razzismo sistemico istituzionale (cfr. “Razzisti per legge” di Clelia Bartoli, Ed. Laterza, 2012), poi, ha determinato danni anche collaterali sul piano culturale. Si pensi alle esternazioni razziste di leader politici ed uomini delle istituzioni che producono emulazione e legittimano intolleranza. Gli episodi in questo senso non mancano e si ripetono con straordinaria frequenza.
Vedere riscritto l’articolo 3 della nostra Costituzione senza quella “brutta” parola sarebbe un segnale importante in un mondo dove sono ancora troppe le ingiustizie sociali, le ineguaglianze e c’è un gran bisogno di solidarietà e di rispetto.
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