Operazione “Aemilia”, giornalismi e ‘ndrangheta
La maxi operazione “Aemilia” condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna non ha fatto luce solamente sui legami tra imprenditori, politici e criminalità organizzata calabrese. La macabra risata di due indagati dopo il sisma che colpì l’Emilia nel 2012 è un capitolo fra tanti. Nelle oltre 1200 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Alberto Ziroldi emergono i rapporti tra il mondo dell’informazione e la ‘ndrangheta. Giornalisti che fanno gli interessi dell’organizzazione mafiosa e giornalisti che non si fanno zittire dalle intimidazioni. A Reggio Emilia, nell’inchiesta ritenuta l’epicentro della consorteria criminale – secondo gli inquirenti – c’è chi offre il proprio microfono a quelli che sono ritenuti membri della cosca Grandi Aracri e c’è chi decide di non essere al servizio di nessuno. Due facce della stessa medaglia, di una sola città e di un solo lavoro.
Fra le 117 persone raggiunte da misure cautelari spunta il nome di Marco Gibertini, giornalista dell’emittente locale Telereggio. Gibertini risulta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, adesso si trova nel carcere di Parma in completo isolamento. Nell’ordinanza si legge che avrebbe «concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa». In particolare «metteva a disposizione del sodalizio e in particolare di Antonio Silipo e Nicolino Sarcone, i suoi rapporti politici imprenditoriali e del mondo della stampa a tutti i livelli».
Nello specifico, risulta che Gibertini sarebbe intervenuto «in un momento di particolare fibrillazione per l’associazione quando nell’autunno del 2012 era scoppiata una polemica in relazione a una cena avvenuta nella primavera precedente durante la quale Sarcone, Brescia, Paolini, Iaquinta e altri avevano incontrato il politico del Pdl Pagliani proprio in vista della realizzazione di una campagna pubblica di contrasto all’azione del Prefetto di Reggio a causa dell’adozione di numerose interdittive antimafia nei confronti di appartenenti all’associazione o a questi vicini e legati». L’attività di Gibertini non finisce qui. Secondo il pm, il giornalista avrebbe «messo a disposizione del sodalizio, seguendo le indicazioni di Nicolino Sarcone, la sua trasmissione sull’emittente Telereggio, nell’ottobre 2012 realizzando l’intervista a Gianluigi Sarcone». Nel gennaio 2013 si sarebbe messo a disposizione direttamente di Nicolino Sacone per fargli ottenere una intervista su “Il Resto del Carlino” pubblicata nel febbraio del 2013 nell’ambito di un’inchiesta (così come chiarito dal direttore del Carlino Andrea Cangini, ndr).
Ma l’indagine “Aemilia” ci consegna un’altra storia di giornalismo. Se da un lato, infatti, ci sarebbero stati microfoni piegati dall’altra parte ci sono state, in questi anni, penne che hanno continuato a scrivere nonostante le intimidazioni. È il caso della cronista del Resto del Carlino di Reggio Emilia, Sabrina Pignedoli che, come si legge nella carte, nel gennaio del 2013 avrebbe subito minacce dall’agente della P.S. Domenico Mesiano, ora accusato del reato di associazione mafiosa.
“L’Infedele ispettore” – così definito dall’accusa – avrebbe telefonato alla giornalista dopo la pubblicazione di un suo articolo riguardo un provvedimento del TAR relativo ai fratelli Salvatore e Vito Muto. Mesiano le disse di smettere di occuparsi con la sua attività giornalistica dei Muto perché quest’ultimi non gradivano. E concluse dicendo che se avesse continuato lui le “ avrebbe tagliato i viveri”. La giornalista andò a denunciare l’accaduto all’Autorità Giudiziaria e continuò ad occuparsi quotidianamente dell’infiltrazioni della ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Emilia. Racconta: “Dopo quella telefonata non ho ricevuto altre minacce da Mesiano per cui mi sono sentita libera di continuare a fare il mio lavoro. D’altronde se così non fosse stato non avrei continuato a scrivere. Questo mestiere si può fare solo in un modo. Nessuno può dirmi cosa devo o non devo scrivere “.
Sabrina Pignedoli, 31 anni, lavora nella redazione del Carlino di Reggio Emilia dal 2008. Nel 2010 ha cominciato ad occuparsi di cronaca nera e giudiziaria. “Non avrei mai creduto che avrei scritto di ‘ndrangheta. Un giorno arrivò un’agenzia sull’operazione Pandora (operazione della Dda di Catanzaro su due cosche del crotonese, ndr). Recuperai le carte giudiziarie, quando cominciai a leggere le intercettazioni, capii che non conoscevo davvero il luogo in cui vivevo. Da lì ho cercato di ricostruire quello che c’era intorno a me e non si vedeva”. La ‘ndrangheta cammina per le strade emiliane diversamente da come lo fa in Calabria.
Spiega Sabrina: “Qui non hanno lo stesso controllo del territorio che hanno al Sud. A Reggio Emilia la ‘ndrangheta non si vede: il loro è un potere di tipo economico. Sono persone con i soldi, hanno belle vite. All’apparenza sembrano individui come gli altri. ” Si muovono nell’ombra, fanno affari e si insinuano nel tessuto economico locale con grande abilità. Difficilmente sparano. Eppure negli ultimi anni, episodi che potevano destare sospetti ce ne sono stati. Il più eclatante nel novembre 2012: nella bassa reggiana sono stati bruciati 9 camion appartenenti ad una ditta originaria di Cutro. Non era abbastanza per creare nell’opinione pubblica la consapevolezza che le ‘ndrine ci sono anche in Emilia. “I cittadini non si sono ancora del tutto resi conto della situazione, altrimenti sono certa – dice la Pignedoli – che avrebbero reagito. In molti sono convinti che siano episodi che riguardano sono le famiglie calabresi, che poi per la maggior parte sono composte da persone più che oneste. C’è ancora indifferenza, una forma di rifiuto del problema.” Sabrina parla con entusiasmo, ma senza perdere la freddezza necessaria al suo lavoro. Non si sente un’eroina, non crede di fare niente di straordinario.
“Quando la sera esco dalla redazione sono stanca, ma felice – conclude. Felice di fare quello che mi piace. Ed io questo lavoro lo so fare solamente così.”
Michela Mancini, giornalista. Ha collaborato con il “Venerdì di Repubblica” e Rainews24. Collabora con Libera Informazione, Articolo21.org e Siciliani Giovani. E’ laureata presso l’Università de La Sapienza di Roma in Editoria e Giornalismo con la tesi di laurea “Cose di famiglia: figli ostaggio dalla ‘ndrangheta” . Relatore Stefano Lepri. Ha vinto il premio Tramonte e il premio per il giornalismo d’inchiesta Gruppo dello Zuccherificio.
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