Bergamini, un delitto borghese?
L’intervista di MATTEO DALENA// — Chi ha ucciso il calciatore Donato “Denis” Bergamini ha un nome e un cognome ma non è una persona: è la borghesia cosentina. Il biondissimo centrocampista ferrarese – trovato cadavere il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico, per anni creduto suicida fino alla riapertura del caso nel 2011 da parte della Procura di Castrovillari con l’ipotesi di omicidio volontario – sarebbe caduto vittima di astrusi meccanismi di potere, sfere che impedivano il normale svolgimento della vita in una città in cui esistevamo poche tracce di società civile. La riflessione è lucida, diretta e non fa sconti: si tratta del pensiero di un ragazzo cresciuto nella curva di allora, quella che incitava Denis e che ormai da anni reca il suo nome. Claudio Dionesalvi, oggi insegnante a Cassano allo Ionio in una delle scuole più difficili della Sibaritide, scrittore e corrispondente del Manifesto, prova a definire l’area storico-sociale in cui potrebbe essere maturato il “delitto Bergamini” intervistato a margine della presentazione del libro “Denis Bergamini. Una storia sbagliata” del giornalista foggiano Alessandro Mastroluca.
Che città era la città di allora?
Cosenza era un posto meraviglioso retto però da equilibri di potere molto particolari, chiusi, riservati, autoreferenziali. Una città borghese come tante altre. Termine obsoleto la borghesia: la gente immagina i grandi conflitti fra classi sociali a cavallo tra ʼ800 e ʼ900. La borghesia non era più una categoria economica ma una categoria basata sull’apparenza che resiste tuttora, una categoria di comportamenti improntati a una morbosità pruriginosa, a una finta moralità e soprattutto a un’ostentazione delle conseguenze del piacere e non delle cause. Voglio essere chiaro: la borghesia cosentina lascia intendere con quante persone fa sesso, quante macchine ha, quanta ricchezza ha accumulato, ma non ci dice – non solo quella cosentina, ovviamente – quali sono le cause di questa ricchezza, cosa c’è alla base di questo presunto piacere.
Calcio, lusso, bellezza, gioventù, passioni brucianti che nascono e poi si dissolvono nel breve volgere di una notte. È questo il “magma esplosivo”?
Per collegare tutto ciò all’omicidio Bergamini basta guardare un film di Bunuel o di altri registi che hanno provato a fissare le caratteristiche morali della borghesia. In questi ambienti gravidi di fatuità possono maturare le peggiori nefandezze. Io credo che la Procura stia indagando proprio in questi ambienti. Credo che finalmente si sia buttato giù quel mito negativo che s’insegue ogni volta che si deve individuare il responsabile di un delitto o di un’atrocità. La malavita.
Già la malavita. Il primo a tirarla in ballo fu il compianto scrittore ed ex calciatore Carlo Petrini, sulla scorta di modi di dire e di fare abbastanza diffusi negli anni in città che tendevano a gettare una spaventosa cortina fumogena sul nome stesso del calciatore. Di Bergamini non si poteva/doveva parlare perché dietro c’era la malavita. È così?
È stato facile per Carlo Pertini (Il calciatore suicidato, Edizioni Kaos, ndr) che stimo tantissimo per il lavoro fatto, dire che la colpa è della malavita, della ʼndrangheta. Certo tra borghesia e malavita esistono legami forti, inutile nasconderlo. Temo però che la borghesia utilizzi il mito della malavita e della ʼndrangheta come parafulmine e spaventapasseri: all’occorrenza quando bisogna distrarre l’attenzione dalle magagne vere si finisce per attribuire la colpa alla ʼndrangheta. La mistica della necessità di combattere un nemico comune, attraendo risorse, uomini e mezzi, finisce alla fine per scagionare dalle vere responsabilità che sono diffuse nell’intero arco sociale e non ascrivibili a nuclei separati di ladri, assassini, tangentisti, spacciatori.
Hai parlato soprattutto di ʼndrangheta. Un fenomeno, dunque, circoscritto alla sola Calabria?
Le inchieste giudiziarie dimostrano quando lurida sia la realtà nel nord Italia e nel resto dell’Europa, come la corruzione si annidi non solo in Calabria ma dappertutto e come i calabresi non siano i soli a esportarla. Però forse siamo noi i primi a subirla. Questa non è una difesa a oltranza della nostra realtà ma penso che la nostra realtà bisogna guardarla.
Bergamini è oggi una delle “bandiere” della Cosenza sportiva. Che ricordi conservi a 24 anni dalla sua scomparsa?
Denis rappresenta per me un tassello meraviglioso di un mosaico che ha accompagnato gli anni più belli della nostra vita: promozione, città in festa, sogni. Mi ricordo che un paio di volte gli sono saltato addosso abbracciandolo. Un mito nel senso puro del termine. Oggi i miti sono parole rubate e restituite, sono merci strappate all’immaginario collettivo. Denis invece era un mito umano.
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