Un’altra giornalista sotto scorta. Perché. Che farei per lei
OSSIGENO – Lavora a Roma a Repubblica. È protetta da un anno. Perché non si è saputo prima. Minacciata per un’inchiesta e perché testimone di un fatto di sangue E’ passato un anno da quando la giornalista Federica Angeli, redattrice di Repubblica, in servizio alla Cronacha di Roma, è stata minacciata di morte da persone collegate a uno dei clan criminali di matrice mafiosa che si contendono racket e appalti sul litorale romano.
Fu minacciata a Ostia, il 23 maggio 2013. La minaccia, registrata in un video, fu consegnato alle forze dell’ordine al momento della denuncia. Dopo quella minaccia, mentre l’istruttoria sugli aggressori proseguiva, lei subì altre intimidazioni e, ormai da dieci mesi, vive sotto scorta. Non può fare un passo senza avere intorno uomini armati che la proteggano. La sua vita è cambiata e non si capisce quando potrà tornare alla normalità.
Da molti anni Federica vive a Ostia con la sua famiglia e i figli. ha continuato a vivere a Ostia. Fece un’inchiesta sui clan proprio a Ostia e dopo le minacce del 23 maggio 2013 raccolse altre informazioni, per scrivere l’approfondita inchiesta giornalistica sul racket degli stabilimenti balneari del litorale romano, poi pubblicata su Repubblica il 28 giugno. Facendo quell’inchiesta sul campo Federica ha incontrato alla periferia di Roma lo stesso problema con cui si devono confrontare tutti i gironi i cronisti locali e i corrispodnenti dei piccoli centri. Perchè Ostia, con i suoi 85 mila abitanti che gravitano sulla vicina Capitale, è un piccolo centro e un giornalista che vive lì si ritrova in mezzo agli esponenti dei clan criminali di cui ha descritto il coinvoglimento in affari sporchi. L’inchiesta di Federica aveva fatto scalpore a Ostia. Aveva attirato su di lei attenzioni ostili.
A rendere ancor più a rischio la sua condizione di cronista fu la scelta di testimoniare su un grave fatto di sangue al quale aveva assistito per puro caso. Era la notte del 15 luglio 2013. Iclan che avevano minacciato Federica erano ai ferri corti e decisero di regolare i conti, con pistole e coltelli, proprio nei pressi della sua abitazione. Accadono queste cose, ai giorni nostri, a venti chilometri da Roma.
Quella notte tutta la gente del quartiere udì gli spari. Molti osservarono la scena da dietro le persiane. Lei invece si affacciò al balcone, guardò bene, vide chi erano. Si senti in dovere di osservare la scena con il sangue freddo del cronista, con l’occhio esperto di chi, per mestiere, è allenato a raccogliere informazioni in poco tempo e in situazioni precarie. Quella notte Federica raccolse quelle informazioni e scrisse, per il suo giornale, la cronaca dettagliata della sparatoria. Si senti in dovere di riferire ciò che aveva visto agli investigatori che indagavano per scoprire chi correva da una parte e chi scappava dall’altra subito dopo gli spari la convocarono in caserma.
Federica non ebbe alcun dubbio sl fatto che doveva testimoniare e dire ciò che aveva visto. Ma dopo quella testimonianza comprese di essersi messa contro gente violenta e pericolosa che già le teneva gli occhi addosso e voleva fargliela pagare. Si sentì cadere il mondo addosso. Ne parlò con i suoi colleghi giornalisti, che compresero la situazione. In redazione ebbe una crisi di pianto. I colleghi, i suoi capi, la confortarono, si attivarono insieme con la direzione del giornale e subito, in meno di 24 ore, il Prefetto di Roma le assegnò la scorta. La sua situazione apparve molto grave. Lei era una cronista, era già stata minacciata, e ora era la testimone d’accusa di un fatto di sangue. Per prima cosa, le fu raccomandato di non rendere pubblica quella sua condizione, neppure il fatto che era sotto scorta. Era naturale. Si stava indagando sulla sparatoria e sulle minacce di due mesi prima e gli inquirenti stavano lavorando da mesi – come sapevano tutti – a una maxi operazione di polizia proprio sui clan di Ostia che si considerava ormai imminente. In effetti, quattro giorni dopo, ci fu una grande retata. Furono arrestate 51 persone. La situazione di emergenza era evidente.
C’è un principio che dice ‘la visibilità pubblica di un minacciato è uno scudo protettivo che rafforza la protezione che gli assicurano le forze dell’ordine’. In base a questo principio alcuni volevano divulgare subito la notizia sul pericolo in cui si trovava Federica. Ma lei, seguendo i consigli, li frenò. Situazioni di emergenza come quella in cui si trovava subito dopo aver resto testimonianza, impongono a un giornale di frenare l’impulso di pubblicare una notizia così grave che coinvolge i suoi stessi redattori.
Ma quanto può protarsi una situazione di emergenza senza diventare una consizione duratura? Senza che si passi a un altro stadio? Senza che l’oscuramento dei fatti pesi sulla stessa vittima? Certamente la situazione di oscuramento della vicenda di Federica si è protratta molto a lungo, più a lungo di quanto si potesse immaginare e l’oscuramento che la proteggeva ha cominciato a indebolirla. Federica lo ha avvertito e dopo dieci mesi ha cominciato a fare sapere cosa le era accaduto, come stava vivendo, perché era sotto scorta. Ha cominciato scrivendo note sui social network. Ha rilasciato qualche dichiarazione sul web. Poi ha raccontare la sua storia in incotri pubblici. Infine ha chiesto al suo gironale di rompere il silenzio e si è rivolta a Ossigeno per l’Informazione per far comprendere la sua scelta di uscire dall’ombra, per dire che era necessario fare sapere quali rischi sta correndo, far capire che la scorta che la circonda non è uno status symbol, ma qualcosa di cui farebbe volentieri a meno: una costrizione, una gabbia imposta dalle circostanze, una machina che genera stress, limita la sua libertà di movimento e la sua attività professionale.
Lo staff di Ossigeno ha incontrato Federica. Ha ascoltato la sua storia emozionante, ha letto i documenti e gli articoli che ha pubblicato, ha visto i video della sua inchiesta, ha consultato i suoi colleghi di lavoro e il comitato di redazione di repubblica e, alla fine, d’accordo con loro, ha concluso che era doveroso fare conoscere la sua vicenda, nel suo interesse e nell’interesse della libertà di stampa.
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