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Non possiamo lasciare il debito ai nostri figli

Di Rocco Artifoni il . Progetti e iniziative

Sono trascorsi 20 anni, ma la situazione non è molto cambiata. Il 26 settembre del 1992 Luciano Corradini, professore di pedagogia all’Università di Roma e vicepresidente del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, si reca in un ufficio postale e versa 500 mila lire come “contributo volontario al risanamento del bilancio dello Stato” italiano. Quello stesso giorno scrive a Giuliano Amato, presidente del Consiglio dei Ministri: “ho deciso di versare mensilmente all’erario 500 mila lire, oltre ovviamente a ciò che debbo in quanto cittadino, finché perdureranno le attuali difficoltà dell’Italia”. E in effetti in quel periodo il nostro Paese era “sull’orlo del baratro, cioè della bancarotta.

La Banca d’Italia bruciò almeno 30 mila miliardi di lire nella vana speranza di difendere la nostra moneta dagli attacchi della speculazione internazionale. Frattanto il Paese assisteva sgomento e rabbioso alla frana morale della classe dirigente, a cui di doveva, oltre al furto delle tangenti , in quindicennio di spesa facile per evitare tensioni sociali, col risultato che il debito pubblico fu portato al 117% del Prodotto interno lordo di un anno, il famoso PIL. Il presidente del Consiglio Amato cercò di correre ai ripari, col blocco degli stipendi del pubblico impiego, con la minimum tax e con imposte e tasse straordinarie”. (Luciano Corradini – La tunica e il mantello – Editrice Universitaria di Roma).

Fa davvero impressione come molte situazioni si siano ripetute dopo 20 anni. Resta il fatto che allora Corradini decise di agire con un “gesto di responsabilità personale un po’ provocatoria nei riguardi della disattenzione collettiva verso il bene comune”. A far riflettere Corradini era stato  il collega Gino Stefani, professore associato nell’Università di Bologna, che qualche mese prima, pur avendo maturato i requisiti per ottenere lo stipendio da professore ordinario, scrisse al preside di Facoltà una lettera di rinuncia ai benefici economici, poiché riteneva “quanto meno inopportuno nell’attuale congiuntura economica del Paese, un aumento della spesa pubblica a vantaggio della nostra categoria”.

E così, Corradini, non potendo rinunciare ad eventuali aumenti dello stipendio, decise di praticare una parziale restituzione. A Giuliano Amato spiegò: “come padre e marito non consideravo uno spreco spendere per la mia famiglia, perché mi sembrava logico fare coi figli il ‘gioco di squadra’. Anche il volontariato e l’assegno per il Terzo Mondo mi sembravano giustificati, dato che per molti è questione di vita o di morte. Ora comincio a capire che anche l’Italia, l’Europa o l’intero Pianeta sono ‘squadre’ di cui faccio parte. Sinceramente mi dispiacerebbe perdere queste partite…”.

Ovviamente non si tratta soltanto di una questione di appartenenza più o meno allargata o magari utopica, ma anche di sano realismo: “se l’Italia subisce un tracollo e regredisce nella barbarie, a poco valgono l’appartamento che posso lasciare ai miei figli, la buona volontà individuale e l’impegno per l’UNICEF. Leggo poi nell’art. 53 della Costituzione che ‘tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva’. Se misuro questa capacità contributiva non solo in rapporto all’evasione altrui e ai miei desideri, ma ai bisogni e ai  rischi che corre ‘la squadra italiana’, indipendentemente da chi la guidi pro tempore e dalla politica che questi riesca a fare per affrontare questi rischi e per far pagare gli evasori, concludo che posso fare qualcosa di più di quanto mi viene richiesto, proprio mentre vedo, senza rassegnarmi, che altri può fare qualcosa di meno di quanto la manovra del Governo gli richieda”.

“Io penso che questo volontariato dentro le istituzioni, questa forma di volontariato fiscale, che non vuole accusare nessuno né coprire alcuna ingiustizia, sia un investimento produttivo di un valore di cui non vedo come si possa fare a meno, noi e chi verrà dopo di noi: parlo della cittadinanza, un bene da produrre e da garantire con appartenenze, leggi e comportamenti, che siano sempre meno inadeguati ad assicurare una buona vita sul Pianeta al più alto numero possibile di persone” (Luciano Corradini – lettera a Giuliano Amato del 26/09/1992).

Pertanto, quella di Corradini non voleva essere soltanto una pur lodevole testimonianza, ma anche un’indicazione sulle strade da intraprendere per il futuro. Lo dimostra il fatto che Corradini ha smesso di effettuare i versamenti mensili allo Stato soltanto dopo un anno e mezzo, quando venne costituita l’Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico (ARDeP), di cui Corradini è fondatore e tuttora presidente onorario. L’ARDeP (www.ardep.it) per due decenni ha cercato di spiegare alle tutti i cittadini italiani che “abbiamo un problema” chiamato debito pubblico. Corradini l’ha efficacemente rappresentato con un esempio: “ci comportiamo come due genitori che tutte le sere vanno al ristorante e che ogni volta mandano il conto da pagare ai figli”.

Così non si poteva e non si può continuare: “mia moglie ed io, genitori di tre figli ormai cresciuti, stiamo cercando d’imparare il mestiere di cittadini”. Umiltà e serietà di un pedagogista, che con il versamento volontario si è sentito “più libero di chiedere al Governo il massimo impegno di equità, con particolare rispetto per i giovani e per la scuola”. Che altro aggiungere? Quando nella prossima primavera si dovrà cercare un sostituto di Giorgio Napolitano per rappresentare al meglio la Repubblica italiana, c’è da augurarsi che venga fatto anche il nome di Luciano Corradini, che indubbiamente ha dimostrato e dimostra ogni giorno di avere più a cuore le sorti del Paese e di tutti gli uomini, che i propri personali interessi e soldi. In fondo, proprio questo atteggiamento dovrebbe caratterizzare la politica autentica, quella davvero vissuta e praticata per il bene comune.

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