Rifiuti in Abruzzo: un sistema al collasso
Il 23 aprile scorso è stato presentato l’Annuale Rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane. Nella sezione relativa alla Regione Abruzzo si fa riferimento anche alla gestione dei rifiuti, evidenziandone fortissime criticità e ritardi. Una modalità istituzionale e moderata per certificare il totale fallimento del sistema di gestione dei rifiuti regionali, ormai al collasso. Un collasso che non è giunto improvvisamente ma è conseguenza di anni di emergenze mal gestite. Nel settembre dello stesso anno PeaceLink Abruzzo (http://www.peacelink.it/abruzzo) e l’Associazione Antimafie Rita Atria (http://www.ritaatria.it) hanno pubblicato un dossier dove hanno chiamato il ciclo dei rifiuti in Abruzzo “Vent’anni di Sodoma” . Sodoma è la cittadella dei rifiuti, il luogo (ovviamente “virtuale” e simbolico) “terreno di conquista di interessi privatistici e criminali, un far west dove imperversano consorterie e comitati d’affari.
Un far west che si inserisce ad ogni livello e devasta” e nel quale “la gestione pubblica continua a segnare inesorabilmente il passo”. L’attuale fase di emergenza, con 2 province senza più alcun luogo dove conferire, possiamo farla avviare il 17 febbraio 2006: nelle primissime ore del mattino l’impianto della discarica “La Torre” nel comune di Teramo. L’intera massa dei rifiuti (mc. 450.000), mista a terra e percolato, scavalca l’argine di contenimento e si riversa nel laghetto sottostante. Viene provocata la fuoriuscita di acqua e percolato verso alcuni affluenti del fiume Vomano, principale corso d’acqua della Provincia di Teramo. Nel processo conseguente sono coinvolti 13 tecnici e amministratori, tra cui l’allora sindaco di Teramo(oggi Presidente della Regione Abruzzo) Gianni Chiodi.
La discarica “La Torre” era l’unico luogo dove l’intera provincia di Teramo poteva conferire i rifiuti prodotti e la sua chiusura costringe a rivolgersi a siti fuori provincia. La discarica”Colle Cese” di Spoltore, vicino Pescara, è la prescelta. Una discarica che si troverà quindi a ricevere tutta l’immensa mole di rifiuti di due intere province. L’estate 2008, poco prima di essere arrestato, l’allora presidente della Regione Del Turco per la prima volta dichiara pubblicamente di voler realizzare ben tre inceneritori. L’incenerimento dei rifiuti irrompe sulla scena e, quattro anni dopo, non ha ancora abbandonato lo scenario ambientale abruzzese. Mentre Del Turco (e, dopo di lui, alcuni sindaci che offrono immediata disponibilità a costruirlo sul loro territorio) ipotizza inceneritori per la cui costruzione ci vorrebbero anni, la situazione rapidamente comincia a deteriorarsi, disattendendo una legge che dal 2003 prevede ben altre cifre, la raccolta differenziata è ferma al 18% mentre il comandante del Corpo Forestale dello Stato Guido Conti denuncia apertamente il “rischio Campania” che potrebbe concretizzarsi già entro pochi mesi.
Il 2009 vedrà una nuova crisi nel Basso Abruzzo con la locale discarica che arriverà anche a chiudere per alcuni giorni e i vari Enti Locali che si accusarono a vicenda di gestione irregolari(con anche tre diffide formali e un parere legale) o di gravissimi ritardi autorizzativi. In tale fase un ruolo decisivo assume l’ARTA(Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente) che documenta e riporta carenze e pessime gestioni dell’impianto: foto e verbali di “gestioni difformi”, capannoni “con i tetti sfondati” e percolato che tracima. Il consorzio di gestione viene accusato anche di gestione clientelare del personale (che avrebbe favorito anche un familiare di un amministratore pubblico) da varie parti, la più dura delle quali fu Rifondazione Comunista che arrivò a parlare di “vacca da mungere”
Il 23 settembre 2010 irrompe nella cronaca giudiziaria l’inchiesta “Re Mida” della Procura di Pescara, le indagini portano alla luce una vera e propria rete affaristico-clientelare che girava intorno alla costruzione di un inceneritore nel Teramano e alla società privata DECO, di proprietà della famiglia Di Zio e quasi monopolistica nella gestione dei rifiuti in larga parte della Regione. Sono coinvolti parlamentari abruzzesi, assessori regionali e vari altri politici. L’inchiesta prosegue nei mesi successivi e, tra le tantissime, viene reso pubblico un appunto scritto da Antonio Vercesi, funzionario della ditta lombarda Ecodeco srl, che schematizza la “mappa del potere” nella gestione dei rifiuti in Abruzzo.
Il 2011 inizia con il rischio di una nuova emergenza: questa volta a rischiare la chiusura è la discarica di Lanciano, in provincia di Chieti a causa del mancato rinnovo dell’autorizzazione provvisoria dell’impianto mobile di pre-trattamento. Secondo dichiarazioni pubbliche dell’epoca, l’amministrazione del consorzio non sapeva che avrebbe dovuto chiedere un nuovo rinnovo. Nell’Abruzzo definito dalla Regione stessa in “pre-emergenza”, un impianto rischia la chiusura per mere questioni burocratiche. Negli stessi giorni l’Ordine degli Ingegneri denuncia “gravi irregolarità nella procedura di evidenza pubblica” nel bando per la nomina dei nuovi amministratori del CIRSU, consorzio dei rifiuti del teramano. Già da alcuni mesi la gestione del Consorzio era nell’occhio del ciclone, a partire dal mancato pagamento degli stipendi ai dipendenti. Mancati pagamenti che avevano portato i dipendenti a scioperi ed azioni forti (le dimissioni del precedente CdA erano avvenute successivamente ad una vera e propria irruzione dei dipendenti durante una riunione dello stesso).
Nei mesi successivi varie vicissitudini si avvicenderanno, soprattutto per quanto riguarda la costruzione della nuova discarica (autorizzata dalla Regione ma su un terreno non di proprietà del Consorzio). Da segnalare il pagamento di una penale di 500.000 euro per non aver acquistato la quota privata del SOGESA (la società che si occupa dell’effettiva gestione dei rifiuti), detenuta da una società della famiglia Di Zio.
Torna prepotentemente alla ribalta nel luglio 2011 l’incenerimento dei rifiuti: il presidente Chiodi annuncia ufficialmente l’avvio di uno studio, che verrà affidato al CNR, per la costruzione di uno o più inceneritori. A livello provinciale nei mesi successivi vengono organizzati anche incontri pubblici per promuovere tale iniziativa. Si ripete esattamente il copione già visto nel 2008: mentre la Regione e gli Enti Locali dedicano attenzione e soldi pubblici a improponibili inceneritori monta l’emergenza.
L’11 marzo 2012 chiude, tutt’altro che improvvisamente, la discarica “Colle Cese” di Spoltore. I pessimi risultati della raccolta differenziata e l’aver dovuto subire il peso di due intere province porta alla chiusura anticipata d
ell’impianto. Per alcuni giorni i rifiuti in molte città rimangono per strada mentre la classe politica (soprattutto sull’asse Pescara-Chieti) si lancia in una vera e propria guerriglia campanilistica mentre oltre metà del territorio dell’intera regione non sa più dove conferire i propri rifiuti. Il 12 dicembre 2010 Chiodi presentò un “Avviso pubblico per l’individuazione di operatori economici interessati alla fornitura di servizi per lo smaltimento di rifiuti fuori Regione ed in territorio comunitario”. 13 mesi dopo, nel momento in cui tale Avviso Pubblico è diventato utile, non se ne ha alcuna notizia. Secondo alcune notizie, con un netto aggravio dei costi, “Gli scarti derivati dal trattamento dei rifiuti del Pescarese” vengono conferiti in “discariche del Molise e dell’Emilia Romagna”.
Ma non finisce qui. Perché qualche settimana dopo viene annunciata la prossima chiusura della discarica di Lanciano, destinata ad esaurirsi per la fine di maggio. Il sindaco di Lanciano e il Presidente della società che gestisce l’impianto lanciano proposte diametralmente opposte per scongiurare la nuova crisi: il primo afferma che la città “ha già dato” e quindi bisogna trovare nuovi siti dove ospitare la discarica e il secondo invece afferma la necessità dell’approvazione da parte della Regione del recupero di volumetrie della discarica. Il 26 aprile la Commissione VIA(Valutazione d’Impatto Ambientale) approva il recupero di volumetrie tramite la “rimodulazione” delle pareti dell’impianto che permette all’impianto (ma solo se non vi verranno conferiti anche rifiuti da comuni non partecipanti alla società che lo gestisce) di proseguire la sua attività di altri due anni. Per la seconda volta, in poco più di un mese, le emergenze non vengono affrontate e risolte in maniera strutturale, ma si preferisce cercare soltanto di posticiparle. Non affrontare ma fuggire. Riportare tutta la storia della gestione pubblica dei rifiuti in Abruzzo, scendere nei dettagli e riportare tutti gli episodi è praticamente impossibile. Ma quanto riportato può ben rendere il quadro complessivo di un fallimento annunciato (basti pensare che il Porto di Pescara sta letteralmente agonizzando, in attesa di un dragaggio fermo da molti mesi, sostanzialmente perché non si riesce ad individuare il sito dove smaltire il materiale dragato) e delle ragioni dell’emergenza di oggi (e che non ha raggiunto i drammatici picchi di Napoli solo per la mancanza in Abruzzo di grandissime metropoli).
Mentre il pubblico arrancava si sono consolidati veri e propri monopoli e posizioni di rendita private ma, soprattutto, si è inserita prepotentemente la criminalità organizzata e si è stabilizzata una vera e propria presenza mafiosa. Il Rapporto della Commissione Bilaterale Parlamentare sul ciclo dei rifiuti(fine Anni Novanta) concluse che “L’Abruzzo presenta, all’attualità, una particolare appetibilità economica ed è oggetto di attenzione da parte dell’imprenditoria deviata e della criminalità organizzata, che in questo territorio ricercano nuove frontiere per investire il denaro proveniente dalle attività illecite”. Ed infatti molteplici sono state le inchieste della magistratura(e della stampa) su traffici e smaltimenti illeciti.
Il giornalista Gianni Lannes denuncia nel novembre 2008 l’aumento record di tumori dopo l’arrivo nel 1994 di scorie industriali dal nord. L’area coinvolta, tra Chieti e Pescara, comprende Tollo, Miglianico e Spoltore. L’inchiesta riporta che nel 1994 Nicola De Nicola, responsabile legale della Sogeri srl, ha innescato l’intera vicenda sfruttando la fornace Gagliardi in contrada Venna a Tollo. Almeno 30mila tonnellate di rifiuti sepolta in riva al torrente Venna e in due capannoni “aperti alle intemperie e ai visitatori”. Spiccano scarti sanitari, farmaceutici, di industrie chimiche, cadmio, mercurio, cromo esavalente, manganese, alluminio, idrocarburi pesanti. Secondo una testimonianza “I camion di rifiuti avevano le targhe di Venezia, Verona, Padova, Brescia. Scavarono due fosse profonde da una parte e l’altra del Venna. Dalla terra usciva un fumo bianco come una nebbia acida e non respiravamo” confermata da una seconda “Quando mischiavano i rifiuti con la terra si alzava una nuvola di polvere che andava a finire verso le nostre case e il paese di Tollo”. Nel 1997 la vicenda fu riportata dall’allora Procuratore Capo di Chieti Nicola Trifuoggi. “In quell’impianto sarebbero arrivati undici o quindici Tir carichi di rifiuti radioattivi provenienti dalla Francia[…] Lo scarico dei rifiuti si faceva da queste parti, grazie ad un unico soggetto, Nicola De Nicola, al quale abbiamo sequestrato la discarica di Tollo. Poi gli abbiamo sequestrato dei terreni perché, chiusa la discarica di Tollo, aveva cominciato a scaricare quasi sul greto del fiume Pescara, a Chieti Scalo. Si è ritrasferito in provincia di Pescara, a Cepagatti, in contrada Aurora[…] Questi rifiuti uscivano dalle fabbriche e poi si procedeva con il solito sistema della triangolazione. Si fermavano una notte a Marghera e il mattino successivo lo stesso camion partiva con una bolla diversa con la dicitura ‘residui riutilizzabili’. Un camion è stato seguito dalla partenza fino a Ripa Teatina”. Oggi quella discarica attende ancora la bonifica.
Riportare tutte le inchieste della magistratura è un’impresa quasi impossibile, il rischio di dimenticarne diverse è quasi impossibile da evitare. In conclusione di questa cronistoria dell’emergenza rifiuti in Abruzzo se ne riportano solo alcune, come casi esemplari che permettono di comprendere la situazione generale. In meno di due anni, dal giugno 1994 al marzo 1996, fu documentata la gestione di centinaia di migliaia di rifiuti speciali, provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia, da parte del clan camorristico dei Casalesi. I rifiuti derivano dalla lavorazione di metalli pesanti. I Casalesi acquistano i rifiuti tramite intermediari e, con documenti falsi, li fanno arrivare in centri di stoccaggio di Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo. Da lì i rifiuti vengono dirottati in aziende e discariche abusive delle provincie di Caserta, Benevento e Salerno. Nel dicembre 1996 viene avviata un’operazione che documenterà un giro di rifiuti speciali e industriali provenienti dalla Lombardia e smaltiti illegalmente nelle cave abbandonate della Marsica. Sempre nella Marsica, nel corso del solo 2001 il Comando di Avezzano del Corpo Forestale dello Stato sequestrò ben 43 discariche abusive, per una superficie totale di quasi 20 ettari, a dimostrazione di un’attività ancora in essere. Nel 1998 un’operazione condotta dai Carabinieri e dal Corpo Forestale dello Stato sgomina un’organizzazione che scaricava nella Marsica rifiuti industriali di varia natura. In soli 23 giorni erano confluite nella Marsica 440 tonnellate di fanghi provenienti da industrie di Caserta, Napoli, Frosinone, Rieti, Roma, La Spezia e Isernia.
L’indagine “Gambero”(Anni Novanta) prese le mosse da una serie di scarichi abusivi di rifiuti liquidi di origine industri
ale nelle fognature, con compromissione del funzionamento del locale depuratore consortile. È stato accertato che Montesilvano rappresentava il punto di arrivo di rifiuti illeciti di origine industriale provenienti da diverse zone d’Italia, in prevalenza stoccati presso un impianto di Forlì e trasportati da un indagato che, nel piazzale di sua proprietà, aveva creato un abusivo allaccio alla pubblica fognatura con sversamento direttamente dai mezzi. Tale soggetto era già indagato dalla procura presso il tribunale per false fatturazioni emesse nell’ambito di illecite attività di smaltimento dei rifiuti. L’indagine “Gambero” vide coinvolte 60 ditte (in prevalenza produttori e trasportatori di rifiuti) e coinvolse anche un addetto alle analisi chimiche, sospettato di aver sistematicamente redatto falsi certificati di analisi per consentire classificazioni più “benevole” dei rifiuti e, quindi, smaltimenti a costi meno onerosi. Nel giugno 2002 un’inchiesta dei carabinieri di Chieti, di Macerata e del reparto territoriale di Castello di Cisterna (Na), porta all’arresto di 5 persone per associazione per delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, alla truffa e al falso in bilancio. L’organizzazione simulava lo smaltimento in Abruzzo di 20 mila tonnellate di rifiuti, finite in realtà in discariche abusive in Campania. Le indagini erano partite in seguito a un incendio avvenuto in una delle aziende coinvolte nel traffico. L’avvenuto smaltimento dei rifiuti che la società di Arzano (Na) fingeva di spedire alle ditte compiacenti di Chieti e Macerata veniva “certificato” da false bolle di accompagnamento. La ditta napoletana pagava regolarmente per lo smaltimento, ma poi l’85% delle somme versate veniva restituito dalle due ditte abruzzesi. Nel maggio 2006 fu condotta dal Corpo Forestale dello Stato un’indagine partendo da appostamenti davanti un impianto di Navelli, dove giungevano i fanghi del depuratore di Pescara. Emerse un vero e proprio traffico illegale di fanghi, smaltiti illecitamente anche fuori regione (in più occasioni in un impianto di compostaggio irregolare a Marina di Ginosa nel tarantino). Alcuni materiali non trattati erano stati smaltiti su terreni agricoli, in assenza dei requisiti previsti per l’uso dei fanghi in agricoltura. Tra gli indagati figurarono dirigenti ed ex dirigenti di ACA e ATO e legali rappresentanti di imprese private(oggi sotto processo).
Le indagini degli Organi di Polizia portano nel 2006 ad accertare l’esistenza di una e vera e propria rete, al centro della quale si trovava la CIAF Ambiente di Atessa di proprietà del Gruppo Marrollo, che “allo scopo di commettere più delitti di inquinamento ambientale, di falso documentale e disastro ambientale, si associavano tra di loro procacciando ingenti quantitativi di rifiuti destinati allo smaltimento”. Questi rifiuti hanno concluso il loro viaggio anche nelle acque del Golfo di Taranto. Il 27 luglio 2008 scoppia un terribile incendio alla Ecoadriatica di Chieti Scalo. La relazione tecnica del soppralluogo dell’ARTA di Chieti (avvenuto a maggio dello stesso anno a seguito di una richiesta della Guardia di Finanza), documentò che vi erano stoccati imballaggi misti, pneumatici fuori uso, diversi bidoni metallici e fusti plastici contenenti rifiuti liquidi (oli minerali), e altri contenenti rifiuti solidi speciali identificabili come filtri di oli esausti (catalogati come rifiuti pericolosi), nonché altri rottami in metallo. Secondo i tecnici dell’ARTA “tutte le tipologie di rifiuto, pericolose e non, depositate in maniera incontrollata sul sito, risultano incluse nell’elenco di quelle autorizzate dalla Regione. Si evidenzia la non regolarità del sito di stoccaggio, in quanto non sono state identificate le aree di deposito e la gestione dei rifiuti non avviene secondo le norme vigenti in materia”.
L’indagine (denominata “Quattro Mani”) della Procura di Chieti e del Noe di Pescara sgomina nel dicembre 2008 un’organizzazione dedita al traffico illecito di rifiuti con base in Abruzzo e diramazione in diverse regioni d’Italia. Per anni, grazie alla simulazione di trattamenti dei rifiuti e alla sistematica falsificazione dei documenti, sono state illecitamente smaltiti ingenti quantitativi di rifiuti speciali, pericolosi per l’ambiente e la salute umana, comprese sostanze cancerogene(tra cui vernici, solventi, rifiuti fangosi della raffinazione petrolifera, rifiuti solidi da fumi industriali, fanghi delle acque reflue industriali). Centro del traffico illecito, dove arrivavano di migliaia di tonnellate di rifiuti da tutta Italia, era un impianto della zona industriale di Chieti Scalo. In due anni l’organizzazione aveva smaltito 150mila tonnellate di rifiuti con un introito stimato in 3 milioni di euro. L’indagine era partita controllando il flusso di camion che dalla Campania giungevano in discariche di tutta Italia, tra cui appunto l’impianto di Chieti. Tra gli arrestati figuravano i due responsabili della SEAB, Walter e Angelo Fabrizio Bellìa, e consulenti della stessa ditta. Alcuni mesi prima dell’indagine “Quattro Mani” Giuseppe Bellìa, parente degli arrestati, aveva presentato un progetto per la realizzazione di un impianto industriale di trattamento chimico-fisico di rifiuti non pericolosi e con il successivo deposito e stoccaggio nel sottosuolo a Rosciano (il paese era già mobilitato contro il progetto, soprattutto dopo aver avuto notizia che un altro esponente della famiglia Bellìa, Sergio, era stato arrestato per traffico di rifiuti pericolosi nel 2002). Clamoroso quanto emerse nel febbraio 2010: il campo dei Vigili del Fuoco, eretto nella frazione de L’Aquila Monticchio a seguito del terremoto, era stato collocato sopra una discarica di rifiuti tossici prodotti da un’azienda che produceva diserbanti, insetticidi, fungicidi. Nel luglio 2010 un’operazione dei Noe di Ancona, ma coordinata dalla Procura di Napoli, stronca una rete criminale con base a Corridonia, in provincia di Macerata, e ramificazioni in Campania, Lombardia, Puglia, Abruzzo, Lazio e Sicilia. Tra il 2005 e il 2009 centomila tonnellate di rifiuti pericolosi (compresi scarti della raffineria di Gela) sono stati smaltiti illegalmente in discariche italiane ed europee. Grazie a false certificazioni, i rifiuti transitavano nell’impianto di Corridonia, dove dovevano subire trattamenti rimasti solo sulla carta, per poi essere smaltiti come rifiuti normali nelle discariche pubbliche.
Meriterebbe almeno un libro a parte la discarica di rifiuti tossici più grande d’Europa, quella di Bussi dove sono stati depositati (e vi si trovano ancora) i rifiuti della Montedison (attiva nell’area dal finire degli Anni Venti del Novecento fino a poco più di vent’anni fa). I veleni di Bussi hanno avvelenato per decenni i terreni e le falde acquifere. Migliaia di abitanti della Val Pescara per moltissimi anni hanno bevuto acqua avvelenata da quei rifiuti tossici. Nel 2007 il Corpo Forestale dello Stato, a seguito dell’azione di denuncia di WWF, Rifondazione Comunista e Abruzzo Social Forum, scop
re l’avvelenamento e sequestra l’area. Si è cercato di delineare le radici dell’attuale emergenza dei rifiuti in Abruzzo e i confini di Sodoma, il terreno di conquista di consorterie, potentati, mafie e organizzazioni criminali varie. Sicuramente non è questo un quadro esaustivo ma crediamo sia sufficiente almeno ad avere un quadro generale e a comprenderlo. Torneremo in futuro a raccontare le pagine di questo libro nero abruzzese, di cui continuamente vengono scritti nuovi capitoli.
Trackback dal tuo sito.